
Tribunale (foto d'archivio)
La Spezia, 21 giugno 2019 – Ucciso da una manovra errata di un collega e dalla carenza di norme di sicurezza all’interno dell’area di lavoro retroportuale. Accadde il 30 gennaio 2005. Quattordici anni dopo, la Corte di appello civile - dopo la prescrizione del reato di omicidio colposo, l’annullo con rinvio della Corte di Cassazione del verdetto di secondo grado - ha stabilito il quantum del risarcimento a favore dei familiari di Sergio Fregoso, impiegato della 2Spedemar" di Arcola, morto schiacciato da un muletto all’interno del piazzale della ditta.
Chiamati a pagare in solido le parti civili, assistite dall’avvocato Claudio Scopsi, sono Alessandro Rossi, all’epoca dei fatti presidente della Cooperativa spezzina, e l’allora ad della Spedemar Mauro Maggiorelli.
Alla moglie della vittima, Anna Maria Pacchi, sono stati riconosciuti 395mila di danni patrimoniali e 248mila di danni non patrimoniali; al figlio Marco Fregoso, spettano 248mila euro; risarcimento riconosciuto anche all’anziana madre di 100 anni: 233mila euro. Alle somme dovranno essere aggiunti interessi e rivalutazioni: un conto finale complessivo di oltre 1 milione e 200mila euro. Ma per le parti civili ci sarà ancora da tribolare per coronare l’obiettivo: gli imputati, nel frattempo, hanno venduto i beni posseduti.

All’esito dell’inchiesta penale, il dito venne puntato sui camminamenti pedonali del piazzale, risultati impercorribili per la presenza di materiale e dei blocchi in cemento usati per delimitarli. Secondo l’accusa proprio questa carenza aveva costretto Fregoso ad attraversare il piazzale con i mezzi in movimento, in una condizione di potenziale pericolo.
Nel 2014 la Corte d’appello aveva ha confermato la sentenza di condanna emessa il 20 febbraio del 2012 dal giudice Roberto Bufo che aveva condannato Rossi e Maggiorelli a 8 mesi (pena sospesa), con il pagamento delle spese legali e di una provvisionale di 20mila euro a favore del figlio e di 10mila a testa a moglie e mamma. Poi era intervenuto la prescrizione dei reati. Ora la chiusura del cerchio da parte della giustizia civile, dopo un iter giudiziario tortuoso e sviluppato a passo di lumaca, con necessità, dopo il flop della giustizia penale, di dar vita ad una nuova istruttoria in sede civile. Si chiama garantismo, si legge sofferenza per chi, privato dell’affetto più caro, ancora attende di ottenere quanto gli è dovuto.