Francesca Mannocchi "Mantenere lo stupore per farne antidoto all’assuefazione"

Giornalista da 15 anni presente nei teatri di crisi e sui fronti di guerra "Quando si racconta per lungo tempo il dolore degli altri, si rischia di smettere di rendersi conto che quello che vediamo non è naturale".

Francesca Mannocchi  "Mantenere lo stupore  per farne antidoto  all’assuefazione"
Francesca Mannocchi "Mantenere lo stupore per farne antidoto all’assuefazione"

Cala oggi il sipario sul Festival della Mente. Tra i protagonisti che hanno portato la propria personale esperienza di meraviglia, file rouge degli interventi di questa 20ª edizione, anche la giornalista e scrittrice Francesca Mannocchi. Da 15 anni presente nei teatri di crisi di molte parti del mondo, ha colto la suggestione delle parole chiave della kermesse per domandarsi quale sia stato, per lei, il significato di stupore.

Cosa significa meravigliarsi nei contesti di guerra?

"Se vogliamo, lo stupore è il contraltare dell’assuefazione. Spesso, quando si raccontano per lungo tempo scenari di crisi, o in generale il dolore degli altri, il rischio è non allenare abbastanza lo stupore di rendersi conto che niente di quello che vediamo è naturale. Niente è come dovrebbe essere. Faccio spesso riferimento all’esempio dei campi profughi, che all’inizio della mia avventura in questo lavoro sono stati, anche per me, un po’ la cartina di tornasole di tante cose. Un campo profughi è un ’non luogo’ di una transitorietà, che spesso, per le persone, diventa in realtà permanente. Un posto fatto dalle cose che non ci sono. In questo senso , lo stupore di entrare in un campo profughi, non è lo stupore di visualizzare quello c’è: una distesa di tende. Il fango se piove. L’aridità se non piove. Quanto porre l’attenzione su quello che manca. L’ombra, se c’è il sole, per salvaguardare i bambini o un gioco per restituire loro la dimensione dell’infanzia. L’elettricità per garantire che il cibo non vada a male e non si muoia di dissenteria. Cose che da questa parte di mondo non consideriamo nemmeno morbi e che invece possono uccidere dei bambini in luoghi in cui si vive a 50 gradi. Credo che mantenere lo stupore in senso etimologico sia l’antidoto all’assuefazione. Quello che colpisce, dopo tanti anni di lavoro, è vedere non solo una sensibilità che da questa parte di mondo non si riesce spesso a creare, salvo casi virtuosi dell’opinione pubblica che prende coscienza delle difficoltà degli ultimi del mondo. Ma di un generale senso di distanza emotiva con quello che accade agli altri in luoghi remoti".

Perché succede? Sbagliamo noi giornalisti, qualche cosa nella comunicazione?

"Quello su cui noi narratori, filmaker, registi, giornalisti, siamo chiamati a interrogarci, è cercare di trovare le parole giuste, efficaci, affinché quello che è così distante, diventi emotivamente vicino a chi non lo vive. Credo che una delle cose su cui dobbiamo essere attenti è quella di cercare di restituire a chi ci legge, guarda o ascolta, le storie dei singoli, che sono sempre un po’ la pietra angolare da cui parte la narrazione delle cose, ma inserite in un contesto che renda comprensibile il perché, il dove e il quando quelle cose stanno accadendo. Altrimenti tutto resta un po’ indistinto".

Le è mai capitato di aver avuto il timore di perdere anche lei questo stupore?

"Credo che una cosa fondamentale da mantenere, per chi passi resti a lungo esposto al dolore degli altri, sia rendersi conto di quando non abbiamo processato la prossimità con la morte che viviamo e in questo senso, avere la capacità, la sensibilità, l’intelligenza di dire: mi devo fermare. Perché a volte, anche noi, rischiamo, per un’esigenza naturale di protezione dal dolore degli altri, di creare una corazza tra noi e quello che succede. Per non scivolare mai nel rischio di diventare impermeabili o cinici bisogna avere anche la capacità di dire: ora io mi fermo. Pulisco lo sguardo. Cerco di processare la quantità di morte e di sofferenza alla quale mi sono esposta. E poi ricomincio a raccontare. È un esercizio di igiene dello sguardo che non dobbiamo avere paura di fare".

Proviamo a leggere questa meraviglia in una prospettiva completamente diversa. Le è mai capito in questi contesti di dolore di avere uno sguardo che si apre alla meraviglia perché si apre alla bellezza?

"Sì ed è una cosa alla quale dovremmo fare molta attenzione nella narrazione. Spesso, noi giornalisti raccontiamo la ruvidità della guerra. Le vittime. La distruzione. La guerra non è solo questo. È anche resistenza di chi sopravvive. La tenacia dei reduci. La capacità di un’anziana di mettere un vaso con un fiore sul davanzale di una casa distrutta. Di dividere il poco che c’è con quelli che sopravvivono. Forse questi esercizi di resistenza alla vita meriterebbero più attenzione, più parole, più sguardo, più racconto. La vita che resiste è una delle cose che siamo chiamati a raccontare. Non solo la vita che si perde".

Maria Cristina Sabatini