Tutto in poche centinaia di metri, fra una manciata di strade e una piazza. Non una qualunque, ma piazza Brin: quella temuta e bistrattata da molti, simbolo della Spezia più autentica per altrettanti. Sono qui il presente, le radici e l’arte di Jacopo Benassi: figlio dell’Umbertino che dalla stazione centrale prende il via per avventure di vita e di fotografia in giro per l’Italia e l’Europa, ma a differenza dell’ironico Patroni, riesce a godersi molto di più rispetto ai binari della via del ritorno. Eppure, il cordone ombelicale con la città non l’ha ancora spezzato, nonostante, come tanti, abbia con lei un rapporto di odio-amore. "Non mi sono mai mosso definitivamente, non me ne sono mai andato. Quando sono tornato da Milano ho aperto il btomic (locale in via Firenze all’insegna della sperimentazione, ormai chiuso da anni, ndr.) con i miei soci, Gianluca Petriccione, Lorenzo D’Anteo, Roberto Buratta, e ho gravitato sempre qui. E qui resto, nel fondo di Arte che è diventato il mio studio (un atelier ricco di opere e di cimeli, ndr.). La mia vita è fra questo e la stazione, visto che parto sempre, e il bar-tabacchi ‘Sottoiportici’: sarebbe bello che diventasse un tableau vivant, un teatro dove tutto accade davvero senza attori! Si tratta di un posto incredibile, è come entrare nel film della mia vita: un rifugio perfetto, pure dal mondo dell’arte, in cui si parla anche di cose serie e importanti".
Quindi, per lei, Spezia è piazza Brin?
"La vivo, è un po’ come un paese dentro la città. Vado a mangiare da Gianni, la trattoria in corso Cavour, dove c’è un menù fisso tutti i giorni e mi trovo molto bene. Con Pagni è l’unica vera osteria di Spezia. Piazza Brin è un micro paese, c’è quello che vende le arance buonissime della Sicilia, c’è Ahmed. Ci sto, dopo la delusione del btomic: venivano tutti da fuori, le persone di Spezia l’hanno snobbato perché pensavano che facessimo cose troppo alternative, ma per me tutto deriva da lì, quello che sono è figlio non della scuola, ma della controcultura, che oggi non esiste più".
E proprio in uno dei presidi di quest’ultima si è formato.
"Sì, al Kronstadt: grazie a Renzo Daveti, che mi ha stimolato tantissimo. Gli devo molto, mi ha incentivato a fare arte e ad essere quello che sono; da quel circuito sono usciti tanti artisti, gente che non si ferma mai, non si guarda indietro".
Che speranze ha per Spezia?
"Io vorrei una città dove succede qualcosa per tutti, invece da anni qui non si gode più. Diciamo che non vedo questa amministrazione preparata per costruire un progetto culturale. Bene che Fondazione Carispezia prenda il Camec, anche se eticamente non penso sarebbe giusto cedere uno spazio pubblico, come accaduto anche con il Pin, trasformato in ristorante: pur avendo il massimo rispetto per chi lo gestisce, siamo sempre al mangiare e al bere. Spezia è una Venezia senza Venezia: ha la stessa capienza in estate, ma non le stesse bellezze e la stessa cultura".
E se avesse la bacchetta magica, che farebbe?
"Con Francesca Cattoi il Camec stava in piedi, pur essendo un posto difficile, ma ora? Serve una fondazione per una città come questa, anche se speravamo in una collaborazione che non rendesse necessario il ricorso ai privati, ma menomale che c’è la Carispezia!".
Ma non sarà anche colpa degli spezzini, che non vogliono pagare per la cultura?
"Nessuno dice che sia facile, ma per quanto mi riguarda, gli spezzini dovrebbero andare gratis nei musei. La Fondazione ha un progetto bello, che partirà da zero, ma Pischedda aveva anticipato il Boss, aveva capito la grande risorsa dei circoli: è stato il primo, geniale! E c’era anche il Pop Eye. Era una città bella, viva. Poi, è difficile accontentare tutti: è felice solo chi ha la barca e vive il mare, il lamento è forse il piatto tipico di Spezia. C’è un curatore che conosco, dice che gli artisti spezzini hanno la bile, sono tutti incazzati".
E lei, come la vive?
"Non bene: è fra qui e via Castelfidardo. Sono rimasto deluso dopo il btomic, dalla gente che doveva sostenerti e non lo ha fatto, ma è andata così. Esisteranno altre persone con la forza di creare cose come la Skaletta, che nel 2024 compirà 30 anni, in futuro? Il mondo fa schifo, ma sono stato fortunato a trovare un compagno che mi ha aiutato a crescere nel mio lavoro. Fa il restauratore, è francese: nel suo paese si prendono più cura dell’arte e della formazione dei giovani fin dalla scuola. Poi, qui c’è uno spirito particolare: non ci sentiamo liguri, emiliani, toscani. C’è effettivamente un interesse per le cose in tanti ragazzi, ma manca qualcuno che ti guida".
A proposito, chi l’ha guidata verso la fotografia?
"Sergio e Sara Fregoso. Al Kronstadt ho conosciuto lei e mi ha accolto dentro casa e con Sergio ho fatto dei corsi blitz, uno fra i tanti al Circolo D’Amore, che poi è diventato il btomic e mio studio. Libri a casa, chiacchiere a tavola, confronto: per me è stata una vera formazione e con lei collaboro ancora. Ci sarebbe sempre bisogno di persone così, una figura come Sergio manca e mancherebbe anche con un’altra situazione politica. Mi dispiace per chi non l’ha conosciuto. Gente come lui sapeva dialogare bene e mettere insieme le persone. Oggi mancano i contatti, possono darli Scarti e Balletto Civile, ancora in trincea. Anzi, vedrei bene Andrea Cerri come sindaco di Spezia. E rimpiango un assessore come Basile, comunista duro che lasciava aperta la strada a ciò che non conosceva".
Però, poi, ha esposto anche in Fondazione e ha un po’ rinsaldato il rapporto con la città.
"Sì, con ’Matrice’, un grande successo anche grazie al lavoro fatto con Antonio Grulli, anche lui curatore di grande talento nato alla Spezia, e anche a Giacomo Bei. La città l’ho resettata completamente, restituendola alla natura: non era, quindi, uno scenario postatomico. Non c’era la figura umana, come dice Giovanni Lindo Ferretti, l’unica figura umana erano i giardinetti. Io li ho vissuti in altra maniera, mi nascondevo per vivere i primi passi nel mondo omosessuale e vedere Spezia da dietro era una protezione per una cosa che mi faceva paura: quella di dichiararmi. Per quello c’erano tanti giardini nella mostra in Fondazione, i doppi sensi erano molti".
Lei ha un rapporto molto intenso con la Francia: cosa ne esce dal confronto con quel paese?
"In Francia c’è molto rispetto per l’arte, i musei funzionano bene e pure le fondazioni: diciamo che l’artista è tutelato, ma anche chi va alle mostre. Non voglio, però, essere il solito italiano che parla male dell’Italia, dove ci sono più opere d’arte che persone: lì funzionano meglio certe cose, altre sono in tilt. Ad esempio, parlando del nostro paese, ho un ottimo giudizio sul lavoro che stanno facendo i ragazzi del ministero della Cultura: sono molto presenti e vicino agli artisti".
Ma mi tolga una curiosità: come mai questa passione per le ciabatte?
"È come se girassi a nudo, come se dessi al mondo che mi vede una parte di me, un momento di disagio che voglio condividere".