Rincari oltre il 70%, Filippi lancia l’allarme "Un’impresa su cinque è appesa a un filo"

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Cerealicoltura, ortofloricoltura e zootecnia: sono questi i settori dell’agricoltura che stanno soffrendo di più per effetto dell’aumento congiunto dei costi energetici e dei fertilizzanti che spingono verso il rischio default un’impresa su dieci (11%). Aumenti che si traducono in un balzo senza precedenti dei costi correnti che penalizzano di più le aziende più energivore come per gli allevamenti di polli con perdite pesantissime fino a 99 mila euro e gli allevamenti di bovini da latte con 47.298 euro, seguite da ortofloricole con 26.927 euro, cerealicole con 18.297 euro e seminative con 17.513 euro. E’ quanto emerge dall’analisi di Coldiretti Toscana su dati Crea in riferimento agli effetti della guerra in Ucraina dopo la crisi generata dalla pandemia Covid. "Gli incrementi medi dei costi correnti si attestano sopra il 54% a livello generale – analizza Fabrizio Filippi, (nella foto) presidente Coldiretti Grosseto – con punte fino al 65-70% per settori strategici come seminativi, cerealicoltori, orticoltura e floricoltura. L’impatto è stato, almeno fino a questo momento, più contenuto per produzioni meno energivore come l’olivicoltura, la viticoltura e la frutticoltura dove l’impiego di gasolio o concimi è molto ridotto soprattutto in questa fase della stagione ma che è stato invece molto pesante per gli altri settori che ne sono dipendenti".

"Ci troviamo in una situazione – prosegue – in cui le aziende stanno producendo in perdita perché gli aumenti dei costi si stanno divorando i ricavi rendendole finanziariamente fragili. Oggi ci sono 5 mila aziende il cui futuro è appeso ad un filo e che si trovano nell’incapacità di far fronte alle spese necessarie per attivare il processo produttivo con tutto ciò che ne consegue dal punto di vista occupazionale, sociale, ambientale ed economico per i territori". Secondo l’indagine di Crea, più di 1 azienda agricola su 10 (11%) è in una situazione così critica da portare alla cessazione dell’attività ma ben il 38% si trova comunque costretta a lavorare in una condizione di reddito negativo.