
Viaggio in treno, direzione Istanbul. Quello strano incontro con l’inglese
Vichi
Una mano, come uscisse dal pavimento, mi afferra la caviglia. Il treno sferraglia disordinato. È il tramonto. Undici ore di viaggio in quel forno, le ultime quattro in piedi, con le orecchie piene di suoni sconosciuti, incomprensibili. Sono anche stanco, però.
Abbasso gli occhi per vedere cosa succede alla mia caviglia e vedo che là in basso, steso fra tanti, un uomo intabarrato geme e sobbalza. Forse sta sognando, o magari è solo ubriaco. Istanbul è vicina.
Con uno strattone cerco di liberare la gamba. Sentirmi toccare mi disgusta, soprattutto al buio, e soprattutto da un uomo.
La mano si sgancia dalla caviglia ma resta impigliata alla tela dei pantaloni, come fosse artigliata. L’uomo geme ancora, tossisce forte, ma a quanto pare non molla. Con l’altro piede cerco di pestargli le dita, di fargli male. Devo liberarmi da quella mano. Tiro ancora con tutta la forza, ma è come se il mio piede fosse murato.
Nella mia fantasia tra dieci secondi quelle dita mi trascineranno all’inferno. Per rinfrescarmi sporgo appena la testa dal finestrino. Mi arriva in faccia un vento caldo e rinuncio subito. È già notte, fuori non si vede più nulla. Sono un pazzo, mi dico.
"Sonia", bisbiglio tra i denti. Meglio non pensarci, adesso. Prima di tutto devo liberarmi di questa mano. Tiro ancora, ma non c’e` niente da fare. Il treno si sta fermando.
"Dovrò tagliargli le dita" penso. Sto per mettermi a urlare. Una donna grassa mi si avvicina ridendo e mi fa notare il pezzo di lamiera ritorta a cui è rimasto impigliato il mio pantalone.
"Ah, grazie!" dico arrossendo. La grassona mi aiuta addirittura a liberarmi. Provo a ridere anch’io, e dondolando il capo dico ancora "grazie, grazie".
Lei mugola dei suoni rimbalzati, mima qualcosa sfregandosi un dito sulla pancia, e ride, ride forte. Io non ho capito nulla, e sento che mi sto deprimendo.
"Sonia..." penso ancora.
Con un salto scendo dal treno. Nella stazione c’è un fiume di tonache a colori, di tabarri, di barbe corte e dure, nere, rumori mai sentiti prima, vicini e lontani, melodie ondulate e sensuali. Esco dalla stazione schivando due tipi che vogliono vendermi di tutto. Per strada la luce dei lampioni cade con stanchezza sulla marea di gente in movimento. Cerco di fermare qualcuno sventolando un foglietto dove ho scritto il nome di una via di Istanbul.
"Come faccio ad arrivare qua?" domando in italiano, ma l’importante è che leggano. Qualcuno scuote la testa, altri sorridono ma non parlano, uno mi sfila davanti senza nemmeno muovere le pupille. Di lontano vedo un uomo vestito da occidentale seduto fuori da un bar, e mi avvicino. È un inglese, mi pare, e da come si atteggia ho l’impressione che viva qui da molto tempo.
"Please, I would like to know..." dico, e subito mi blocco, scopro che il mio inglese finisce lì. Il caldo mi sta fiaccando, muoio di sete.
"Italeano?" chiede l’inglese, e capisco subito che non sa la mia lingua. Faccio di sì con la testa, gli metto davanti agli occhi il foglietto e aspetto. Lui me lo prende di mano, legge, sembra perplesso.
"It’s not easy" dice. L’inglese mi rende il biglietto, comincia a gesticolare mentre dice i soliti "left", "straight" e "ok", ma qualcosa non funziona, e si blocca.
Ci ripensa, e annulla tutto con una manata all’aria. Ferma un ragazzino vestito di stracci e gli dice qualcosa in turco, poi si rivolge ancora a me. Dice parole che non capisco, ride con aria d’intesa, poi mi fa cenno di andare dietro al ragazzino. Lo ringrazio. Sto per muovermi, ma l’inglese mi trattiene per un braccio. Sorridendo mi fa un lungo discorso come per spiegarmi qualcosa per l’ennesima volta...
(1- continua)