Firenze, 15 agosto 2024 – Doveva essere il giorno più bello della sua vita, con la nascita della sua primogenita. Per un errore medico, però, quel 23 febbraio del 1976 è stato l’inizio del suo peggior incubo. Perché Maria (nome di fantasia), originaria di Borgo San Lorenzo, all’epoca dei fatti appena 20enne, a seguito di una violenta emorragia dovuta al parto cesareo fu sottoposta a un’emotrasfusione con sangue infetto dal virus dell’Hcv, meglio noto come epatite C. E per questo, pochi giorni fa, la Corte di appello di Firenze, quarta sezione civile, ha condannato, con una sentenza storica che sovverte quella di primo grado, il ministero della Salute e il Comune di Borgo San Lorenzo, responsabile ’contrattuale’ per l’ormai ex ospedale di Luco di Mugello (dove è avvenuta l’operazione), a risarcire la donna per danni morali e biologici con oltre 167mila euro. Esentati dalla decisione, per carenza di legittimazione passiva, la Regione Toscana e la Gestione liquidazioni dell’Asl.
Quarantotto anni di dolore e sospetti sono passati dal quel freddo fine febbraio del ’76. Quasi mezzo secolo, per la metà del quale Maria – difesa dall’avvocato Virginia Calussi – è stata all’oscuro di tutto. Solo nel 2007, infatti, la donna ha scoperto di avere l’epatite C dopo alcuni esami ematochimici. Nessuno ai tempi ipotizzò un nesso causale con la trasfusione avvenuta nel ’76. E tre anni dopo, nel 2010, cominciarono le prime avvisaglie di un risveglio del virus, con lesione cutanee e dolori diffusi. Nel 2017 arrivò poi il crollo: Maria viene ricoverata a Careggi, dove gli viene diagnosticata la cirrosi epatica avanzata. I medici di epatologia non usano mezzi termini: "Senza un trapianto di fegato rischia di morire". L’operazione va a buon fine e la donna riprende la sua vita, non senza problemi però.
Crisi cefalgiche, alimentazione sballata, forti dolori inguinali, aggressività più spiccata e continue difficoltà motorie, è il conto che ogni giorno la malattia presenta alla donna. I consulenti del tribunale, si legge nella sentenza, si fermano però a una valutazione, della sintomatologia e delle limitazioni delle sfera funzionale e dinamico-relazionale, del 30 per cento di invalidità.
Nella sentenza, i giudici fanno chiarezza sui termini di prescrizione, basati in questo caso non sulla data della trasfusione, ma su quella della consapevolezza acquistata dalla donna sulla sua malattia. A questo si aggiunge un quadro clinico dei periti tecnici che confermano a più riprese il nesso di causale tra la trasfusione e la malattia, ma soprattutto tracciano l’escalation con la quale il virus è diventato più aggressivo, fino a rendere necessario il trapianto di fegato.
Quanto alle responsabilità, è curioso come nonostante il ceppo dell’epatite C sia stata isolato solo nel 1988, dodici anni dopo il parto della donna, per i giudici – forti di molteplici sentenze della Suprema Corte – la responsabilità dell’infezione ricade comunque sul ministero della Salute. Perché? "Sin dalla fine degli anni ’60 – si legge – era già ben noto il rischio di trasmissione di epatite virale", e quella del Ministero può considerarsi quindi come una "condotta omissiva". Inoltre, secondo le indagini, risulta che "nessun esame è stato fatto sui donatori delle sacche di sangue" usate per la trasfusione di Maria. "È una sentenza storica, siamo molto soddisfatti del risultato. Giustizia è stata fatta", commenta il legale Calussi. I giudici hanno inoltre liquidato le spese legali a carico dei Ministero e Comune per un totale di circa 25mila euro.