
Mario Trapassi, il caposcorta di Rocco Chinnici ucciso nel 1983
Campi Bisenzio (Firenze), 6 giugno 2017 – Nulla è stato deciso circa la richiesta di sostituzione del regime carcerario con i domiciliari, presentata dagli avvocati di Salvatore Riina ma questa “ipotesi” da un paio di giorni fa discutere in tutta Italia, dalle televisioni ai social, passando per i giornali.
La Cassazione ha semplicemente scritto che Riina ha diritto a morire con dignità e chiesto se in quel carcere questo è possibile. I giudici di Cassazione non hanno quindi preso nessuna decisione ma ciò non basta a placare la rabbia, soprattutto quella dei familiari delle vittime della mafia. Rabbia anche solo per aver parlato di “morire con dignità” nei confronti di qualcuno che non si è mai posto il problema.
A Campi Bisenzio vive Pietro Trapassi, fratello di Mario, il caposcorta del giudice Rocco Chinnici che morì insieme al magistrato il 29 luglio 1983. Pietro Trapassi da alcuni anni si dedica alla scrittura e in uno dei suoi libri “Caino vive a Palermo” si parla di Mario e di quella Sicilia insanguinata dalla mafia. Trapassi ha scritto una lettera aperta, che suona come un appello ai giudici della Cassazione. La sua preoccupazione (e anche quella di molti) è che questo episodio, se dovesse concludersi con l'accettazione di misure carcerarie attenuate, potrebbe essere il primo di altre richieste di modifica o attenuazione delle condizioni previste dal 41 bis. Forse non accadrà mai, ma il suo appello è anche l'occasione per ricordare, dopo le recenti commemorazioni di Giovanni Falcone e della strage di Capaci e di via dei Georgofili a Firenze, quello che è accaduto negli ultimi quarant'anni in Italia: la scia di sangue provocata dal terrorismo e dalla mafia.
“Ma cosa è diventata - scrive Trapassi - la giustizia? Già abbiamo assistito a tante manifestazioni che della giustizia si sono fatte beffe. Che la Cassazione arrivi a preoccuparsi della dignità di un sanguinario, che della sua dignità di uomo se ne è fregato tantissimo, a scapito di tanti che hanno subito il suo protervo vivere e ha lasciato tanti segni di avvilimento in coloro che sono stati privati dell'affetto e presenza di quelli che ha macellato lui, è davvero il massimo. In uno stato di diritto come l'Italia è il massimo. Il diritto, tanto invocato assieme alla legalità, è dimostrato che è solo a difesa dei furbi, dei ladri e degli assassini, specialmente dei nemici dello Stato. Abbiamo fino ad ora sentito quell'uomo, di cui ci preoccupiamo, aver detto: mi pento! perdono per come ho vissuto e come ho fatto vivere una città, una regione, una nazione? No. Cosa si dirà a coloro che sono stati umiliati, vessati, spogliati della loro dignità, signori della Cassazione?”.
Quel 29 luglio 1983 il destino aspettava proprio Mario Trapassi perchè il maresciallo dei Carabinieri (in precedenza aveva fatto parte anche della scorta di Carlo Alberto Dalla Chiesa e di Paolo Borsellino) doveva già essere in ferie ma si era prestato per sostituire un collega. Morì con Chinnici e con Salvatore Bartolotta. Aveva quasi 33 anni, lasciò quattro figli e tanti parenti sparsi da Palermo a Torino.
“Mario desiderava – ricorda Pietro Trapassi - una Sicilia più legale, un futuro più sereno e si adoperava per riportare sulla giusta via piccoli delinquenti, di cui aveva conoscenza. Amante della famiglia, quella che comprendeva anche i tanti parenti, si adoperava perche fosse sempre unita. Il suo sacrificio non può essere catalogato come un atto di normale vita. E oggi sentir dire che si parla di prendere in considerazione il tenore di vita di chi della vita degli altri se ne è fregato altamente, è un'offesa alla sua memoria e a quella di donne e uomini coraggiosi che hanno fatto la stessa fine”.
Certamente fa effetto sentir parlare di richieste di misure alternative al carcere duro per coloro che sono stati ai vertici della mafia, ma molte famiglie di vittime degli anni di piombo vedono diversi ex brigatisti ormai liberi. Molti hanno scontato la loro pena e altri, nonostante i numerosi ergastoli, sono stati ammessi al regime di semi-libertà e alla detenzione domiciliare speciale. Decisioni che anche queste hanno suscitato ogni volta polemiche.