GUELFO
Cronaca

Ricordo di Afo L’imbianchino che amava Sartre

Guelfo

Guelfi

Più del pennello poté la penna. È la vita, ragazzi. La vita maledetta dei poeti, la bella vita abbracciata all’ultimo bicchiere prima di prendere sonno. Poi si fece danno, si disse donna, e si finì in guardina. Si persero gli amici, si tenne testa alle giacche blu: con alle spalle un muro era difficile avere la meglio su chi per strada c’è nato ed è campato con il polso fermo di chi il filetto che rifinisce l’imbiancatura lo tira a mano. A casa mia chiunque può ancora ammirare il filetto tirato da Afo. Afo ha lo sguardo sornione e non la dice tutta. Se proprio va detta la scrive. Afo è elegante e coltiva note tracciate con l’ultimo fiato. Sapevo che prima o poi sarebbe andato. Lo vidi la prima volta e lo rivedo ancora con quel giubbotto di pelle marrone schizzato di vernice bianca come coperte da macchie bianche erano a sera le mani. Era 1965. io avevo vent’anni: un presuntuoso di appena 50 chili, lui un bel ragazzo di anni 25. Una testa acciuffata e due occhi vivi e fuggenti, lustri come se avesse pianto. Teneva banco in una stanza della federazione del Pci. Un imbianchino colto e di sinistra che diceva di Sartre, Barthes, Pasolini e dei ragazzi di vita. Che non mi guardava male ma pareva chiedersi ’ma questo da dove è uscito?’. Per me era facile innamorarsi, non avevo mai visto nulla. Ero allevato a Salgari e al mito della guerra partigiana di mio padre. Avevo orecchio e Afo aveva musica. Poi che c’entra, la vita corre anche se 5 anni sono proprio la differenza che ci fu, per dire, tra Burri e Fortuni, il suo amico medico. Afo era più grande, intendo di cervello. Non aveva tanta voglia di spiegare, caso mai gli piaceva raccontare. Era come suonare, chinava il capo, beveva un sorso e giù la magia delle parole, il canto. Non mi mancherà. Me l’ha spiegato un prete: la morte prende un corpo ma resta il miracolo dell’esistenza dentro tutti quelli che ti hanno conosciuto e che sono un po’ te e un po’ quello che resta di loro. Pensa a Tommaso D’Aquino, campò a stento una cinquantina d’anni, c’è chi lo ama ancora per quel che scrisse allora. Parliamone: tu non sei morto. Afo vive, come il Che.