Firenze, 29 agosto 2024 - Quale cappello ci mettiamo in testa? In una celebre canzone, Keith Reid invitava il protagonista del testo rimasto solo a sfilarsi la lobbia (homburg), perché il soprabito era troppo lungo, e ad andare via dalla stanza abbandonata da un’amica d’affari poliglotta. E’ evidente la simbologia e anche il messaggio: lo status serve fino a un certo punto contro la solitudine. Il cappello evoca il rispetto quando lo si toglie davanti a un evento e a qualcuno che si considera importante. E così via. Anche i cappelli hanno una storia e Sara Paci Piccolo, docente di storia dell’abbigliamento, di sartoria storica e di cultura materiale per diversi istituti di istruzione superiore, come il Polimoda di Firenze e il Fashion Institute of Technology di New York, ne ha ricostruito la storia, analizzando soprattutto la loro presenza nel Medioevo, nel libro ‘Medioevo sulla testa’ (edizioni Penne e Papiri), presentato tra l'altro in Palazzo Medici Riccardi. “Nella società medievale non avere un cappello voleva dire non avere alcun stato sociale – spiega Paci Piccolo - I copricapi, ossia anche le acconciature della testa, al pari di altri elementi tessili e d’abbigliamento, rivelano interessanti reti di influenze e relazioni di potere, dal punto di vista culturale, estetico, economico, ma anche da quello formale e strutturale”. Interessanti considerazioni sono svolte sui significati delle vesti e dei copricapi nelle celebrazioni liturgiche, soprattutto bizantine, con un richiamo: la liturgia deve essere bella e ad essa si doveva e si deve andare vestiti bene, nel senso di non sbracati, ma come antitesi del perbenismo: i poveri, infatti, sono fratelli, non vanno cacciati e si devono condividere con loro i vestiti.
CronacaPiù che un cappello, è "un Medioevo sulla testa"