Orsini, nell’inferno dostoevskiano

Il grande attore stasera e domani al Puccini. "Il pubblico vuole che in scena si sputi sangue, lacrime e voce"

di Barbara Berti

"La libertà, la fede, il credere oggi non hanno più la lettera maiuscola, tutto è un po’ più piccolo. E’ il difetto della nostra epoca, un appiattimento generale". E’ il pensiero di Umberto Orsini, 88 prodigiosi anni e 65 di carriera, dal debutto al cinema con Federico Fellini nella "Dolce vita" al record di ascolti tv con lo sceneggiato "I fratelli Karamazov". Ma è il teatro il suo habitat naturale dove dagli anni Ottanta non salta mai una stagione. Stasera e domani sarà in scena al Puccini di Firenze con "Le memorie di Ivan Karamazov", tratto dal capolavoro di Fëdor Dostoevskij "I fratelli Karamazov", spettacolo di cui Orsini è interprete e autore della drammaturgia insieme a Luca Micheletti che ne firma la regia.

Affronta per la terza volta da attore l’ultimo romanzo di Dostoevskij: ci sono dei legami particolari con Ivan?

"Beh, lo sceneggiato Rai del 1969 fu un successo straordinario. Poi con ‘La Leggenda del Grande Inquisitore’, spettacolo teatrale per la regia di Pietro Babina ho ripreso Ivan facendolo rivivere oltre il romanzo. Ne ‘Le memorie di Ivan Karamazov’, invece, invento un finale per Ivan, che Dostoevskij non dà".

Cosa ci dice di questo ‘finale’? "Mi confronto direttamente con la complessità del personaggio più controverso e tormentato dell’intera letteratura: Ivan Karamazov, il libero pensatore che teorizza l’amoralità del mondo e conduce all’omicidio.

Una sorta di confessione?

"Si aggira in un tribunale fatiscente: compila le sue memorie e tenta di far luce sui sentimenti e sulla propria filosofia, provando a svelarne le implicazioni criminali, come in un vero thriller psicologico e morale".

Un viaggio nell’umana coscienza?

"I tormenti, le recriminazioni fanno parte del monologo, nella ricerca della sua verità. Qui è importante anche la scenografia mastodontica, questo spettacolo ha bisogno di un’aria barocca, operistica. Non mancano vento, fumi e fiamme, insomma l’inferno dostoevskiano".

E non manca la sua inconfondibile voce.

"Sì, recito senza microfono. Sa cosa piace al pubblico? Che l’attore in scena sputi sangue, lacrime e voce. Poi la parola è un mezzo semplice ma potentissimo che unita al suono e al pensiero è materia esplosiva in teatro".

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