
La notte dei ponti distrutti Così la Bellezza morì per sempre "Il 3 agosto esplose dentro noi"
di Francesco Gurrieri
Noi ragazzini di piazza Leopoldo con i botti e gli sconquassi delle bombe eravamo già abituati. Riuscivamo a simulare benissimo i sibili delle granate dei mortai e avevamo alle spalle qualche incursione nelle voragini create dalle bombe dei bombardieri alleati, i B25 americani e i Wellington inglesi nei bombardamenti del settembre (con 215 morti), dell’ottobre ’43 e del marzo ’44. Poi, la distruzione dei ponti fra il tardo pomeriggio del 3 agosto ’44 e la mattina dopo. Tutti noi vorremmo tener viva la ‘memoria storica’ di quei giorni, passandola di generazione in generazione, affinché il passato non si ripeta. Anche se, tristemente, la globalizzazione della violenza che ci sta accompagnando ancora in questi giorni smentisce la stessa idea di memoria collettiva.
Settantanove anni ci dividono da quella mattina del 1944, da quelle distruzioni sistematiche, quando i guastatori del colonnello Fuchs eseguirono l’ordine di quell’operazione ‘Feuerzauber’ (sadicamente e wagnerianamente, ’incantesimo di fuoco’) ordinata da Kesselring, cancellando in poche ore il cuore urbano di Firenze. Il salvataggio del Ponte Vecchio ebbe come contropartita la distruzione del suo intorno, da via Guicciardini a Borgo San Jacopo, a via de’ Bardi, Porta Rossa, Santo Stefano, il Lungarno Acciaioli.
Vani erano stati i tentativi di mediazione per risparmiare la città da quella barbarie. Ci avevano provato il cardinal Dalla Costa, uomini del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale, lo stesso console del Terzo Reich Gerard Wolf (poi cittadino fiorentino ad honorem). Tutto fu inutile. Le efferatezze della Banda Carità e le crudeltà della Gestapo avevano colpito duramente, con torture ed esecuzioni, diffondendo un odio che ha richiesto non poco tempo per esser placato.
In carcere alle Murate erano stati messi in tanti: docenti dell’Ateneo fiorentino come Ranuccio Bianchi Bandinelli, Renato Biasutti, Francesco Calasso; ed ancora, Carlo Ludovico Ragghianti, Carlo Levi, Quinto Martini e tanti altri. Nell’esasperarsi dell’odio, nella visceralità dei sentimenti che ne seguirono, nella folle distruttività della guerra, anche la cultura fu tante volte umiliata.
Ancor oggi ricordiamo con sentimenti che raggelano, la fredda esecuzione di Giovanni Gentile (che aveva portato l’Accademia d’Italia in Palazzo Serristori), con modalità che Bernard Berenson ebbe a definire di ’cieco odio di parte del quale quest infelice Paese è dilaniato’. Certo, paradossale è ancor oggi, considerare come quella sconsiderata operazione tattica della distruzione, fece ritardare l’avanzamento del fronte alleato di solo sei giorni. Sei giorni e Firenze era liberata.
La tecnologia dei ponti prefabbricati Bailey (prendevano il nome dall’inventore, l’ingegnere britannico Donad Bailey) impiegata sui piloni del distrutto Ponte Santa Trinita, consentì rapidamente l’attraversamento dell’Arno da parte delle autoblindo inglesi e dei carri M4 Sherman americani che arrivavano da Porta Romana. Di quella tragedia ognuno ha mandato a mente le sue immagini: chi con la sola memoria, chi con le foto, come Nello Baroni, chi con i disegni, come Ugo Fanfani, Sirio Pastorini e Luciano Guarnieri, chi con il proprio lavoro di restauratore come Ugo Procacci, Guido Morozzi e Riccardo Gizdulich; chi, infine, con l’instancabile sollecitazione civile della critica come Calamandrei, Ragghianti, Agnoletti, Zoli, Devoto.
Poco più tardi sarebbero arrivati i bulldozer, i caterpillar, nuovi mostri metallici portati dagli alleati, che ci saremmo presto abituati a vedere per rimuovere le macerie e ritracciare nuovi collegamenti. Oggi, col sipario finalmente chiuso su quello scenario e con l’animo fraternamente ricomposto siamo a chiederci come sia stato possibile. Così, ripercorriamo le lacrime di quel grande soprintendente che fu Procacci ("Nessuno avrebbe potuto immaginare tanta barbarie su Firenze") e di quel bravo e incredulo direttore del Kunsthistorisches Institut di allora, Friederich Kriegbaum : "Chi potrebbe distruggere tanta bellezza? Certamente né noi, né loro". Non andò così, purtroppo.
"Nell’ancor pallida luce del primo mattino vidi la mia Firenze distrutta" ha lasciato scritto Procacci.