LUCA SCARLINI
Cronaca

La giungla di sogni e delusioni. Un viaggio nella natura dove l’uomo ha rovinato tutto. E’ il segno dei nostri tempi

Il 20 gennaio 1938 Raffaele Calzini scrive per "La Nazione" un reportage dall’Estremo Oriente. I turisti sono solo anziani, i Matusalemme della curiosità, e le guide invase da domande inutili.

Raffaele Calzini, giornalista, critico d’arte, critico letterario, critico cinematografico, scrittore e traduttore

Raffaele Calzini, giornalista, critico d’arte, critico letterario, critico cinematografico, scrittore e traduttore

Vedremo le scimmie al naturale, proprio sugli alberi? Oh sì; certamente. Vedremo gli elefanti al naturale? Oh certamente. Allora niente albergo, niente cartoline illustrate, niente pelli con le fotografiche. Oh, sì. Tutto questo e anche altro. Ma allora, la giungla, la vera giungla? Questa, gentile signorina ve la presenterò subito. Delusioni sempre sull’orlo della giungla e della verità. Tutte le automobili della comitiva, schierate hanno una bandieretta e un numero, tutti i turisti un cartoncino traforato a tagliandi questo per l’andata e questo per il ritorno, uno da presentarsi allora della colazione e uno all’ora del tè. Ancora capannelli e domande all’organizzatore e alla guida della comitiva. Un vecchio sottu fficiale inglese in pantaloni corti e blusa kaki, suda sotto il casco foderato di verde, maneggia il bastoncino ricoperto di cuoio. Ha fatto la guerra in Italia, guerra dura: questo gli ha insegnato molto rispetto per gli italiani e qualche parolaccia del vocabolario alpino. Da Salgari a Kipling. Tutti lo conoscono, tutti lo rispettano. Ha una grande sopportazione. Ora non viaggiano che i vec chi e le vecchie e le zitelle anziane - dice- i Matusalemme della curiosità. La curiosità è divenuta un retaggio della vecchiaia: il desiderio di istruirsi di colmare le lacune geografiche ed etnografiche appartiene ai superstiti dell’Ottocento. Il cinematografo ha svelato tutto. E poi i giovani si vantano d’essere ignoranti: se viaggiano è per ubriacarsi, giocare al ponte, comperare della paccottiglia. Sa? Ve ne sono che non scendono nemmeno delle navi. Hanno ragione, io farei come loro. Tutto il mondo è paese. Prima di qui ero al Cairo, prima a Baalbech, prima ancora in Sud-Africa. Tutto il mondo è parse la giungle, Hyde Park, Villa Borghese. Gli uomini, iInterrompe il monologo e abbassa il capo per rispondere a una coppia di olandesi, grassi, vecchiotti, vestiti da cacciatori. Scusi sa, non vorremmo far colazione al Ristorante Old. Benissimo, Neel Suisse nè al Queen’s di Kandy. Vorremmo un po’ di libertà, esplorare un po’ per nostro conto, intorno, sa? Oh benissimo. Faremo colazione sull’erba non vogliamo spiegazioni stereotipate sulla giungla. Per questo vogliamo appartarci all’ora della colazione. Capisce? Sull’erba.

Contro i primi snodi della sfilata automobilistica si rompono le anse tumultuose e formicolanti urlanti del Quartiere indigeno che sopporta questa intrusione come un elefante sopporta una pulce. Il Dettah, vivo, condensato, mattutino investito dalla brezza del mare che libera l’atmosfera dal torpore profumato e afrodisiaco della foresta. Essa è affrontata, dopo pochi chilometri, sente rive. Le sbarre che la contengono sono le strade della superficie d’asfalto. E quel prodigio di luce e di clorofilla dentro il quale si viaggia come tra le pareti dei grattacieli newyorchesi, timidi ma persuasi che ben presto lo scenario muterà ha un aspetto dilettantesco. E’ un Paradiso Terrestre, ma giardinato. Se gli eroi di Salgari o i personaggi di Kipling dovessero balzar fuori da questo cuore, tenebroso e rovente troverebbero subito le tabelle turistiche con la indicazione numerica delle miglia e il segno convenzionale della svolta pericolosa o della cunetta. La civiltà occidentale, coi suoi chioschi, i suoi avvisatori, le sue pubblicità incide il proprio nome sull’orlo dell’Oceano o della giungla come i turisti al margine delle piramidi. Il suo passaggio è più provvisorio e labile di una meteora. La mostruosa natura ha dalla sua due dimensioni: il tempo e lo spazio. L’automobile che lasciamo respirare col cofano aperto e il radiatore fumante, sotto una cappa di calore che ammollisce l’asfal to e ronza nelle orecchie, è decrepita in confronto a certi germogli di foglie cremisi o gialle che sono spuntate la notte e domani saranno un albero. La strada è una ferita pronta a cicatrizzarsi, tagliata nettamente in una massa vischiosa, I chilometri si succedono ai chilometri, nella prospetti va la massa vischiosa sembra rinsaldarsi alle nostre spalle. Man mano quel senso di una giungla addomesticata si attenua, chilometri e minuti di verde si sono accumulati, nel cervello, hanno composto la monotonia di una epoca.