
Il dovere di esserci. Gli anziani ai giovani: "Lo facciamo per il vostro futuro"
Arrivano in tanti, perchè il dolore e lo sconcerto non hanno età, professione, colore politico o ceto sociale. Quello che è accaduto al cantiere è una ferita che Firenze porterà con sè per sempre. E la piazza, semmai ce ne fosse stato bisogno, lo conferma. Per le vie di accesso al cantiere, già molte ore prima dell’inizio si notavano bandiere arrotolate e fazzoletti rossi al collo. Il traffico è fermo da via Forlanini al Ponte di Mezzo, oltrepassare il Terzolle in macchina era impensabile. Firenze ferita ha chiamato a raccolta chi ha la fortuna di essere vivo e ha il dovere di protestare per chi non può più farlo, per chi è morto di lavoro. Dal Manzoni fino all’incrocio con via Dei Marignolli e all’ex pastificio di via Mariti, un fiume di folla commossa. La presenza delle forze dell’ordine è massiccia, ma discreta. C’è un silenzio composto, una cupa mestizia che fa da seme alla voglia di reagire, mentre i sindacalisti arringano dagli altoparlanti. La maggior parte delle teste sono grigie, un fattore demografico non casuale: chi è più in là con gli anni non teme di aderire a uno sciopero come la generazione dei precari ricattabili. Sono qui per dare speranza e futuro ai giovani. "Sono stufo di vivere in un Paese non civile – spiega Marco Rapi, direttore commerciale in pensione – Mille morti l’anno, gente che scappa dalle tragedie e viene messa a lavorare senza nessun diritto. La situazione lavorativa è cambiata per i giovani. Ci sarebbero tante cose da fare, ma prima di tutto far crescere la nazione tramite i diritti e le opportunità, investendo in ciò che porta lavoro e lo fa rimanere in Italia lavoratori e aziende".
C’è anche chi un lavoro non ce l’ha più, ma è solidale con chi rischia ogni giorno: "È assurdo andare la mattina a lavoro e lasciarci la pelle quindi io e mia moglie volevamo esserci – afferma Vanni Porciani, ora in disoccupazione – Morire per il profitto economico? È ingiusto che per lavorare bisogni accettare l’irregolarità e il rischio: c’è chi deve accettare per mandare soldi a casa alle famiglie. Purtroppo la maggior parte della gente va a lavorare per mangiare; e ci deve poi morire? Non dobbiamo abituarci ai morti sul lavoro". In maggioranza sono italiani, ma ci sono anche diversi stranieri. "Questi ragazzi sono morti per colpa di chi sta sulle poltrone. Erano nostri paesani, muratori come noi – dicono Amhed e Jamal, marocchini – il lavoro duro lo fanno solo gli stranieri, quelli che hanno i soldi ci fregano con le cooperative, ci fanno i contratti da metalmeccanici". "Siamo edili in cantiere – testimoniano Mauro Scopaioli e Samuele Biagenti – Sappiamo quello che succede, la nostra è una ditta d’oro, infortuni zero e molto attenta alla sicurezza. Ma quando non c’è può succedere questo". "La sicurezza nel lavoro è importante, se si tralascia è finita, bisogna investirci di più – commenta Alessandro Millacci, metalmeccanico –. Gioca un ruolo anche la stanchezza: i turni sono spesso lunghi e faticosi. Io lavoro da 40 anni, dovrei essere già in pensione: non abbiamo le stesse energie e occhi che a 20". "Dai numeri dei morti sul lavoro, è come andare in trincea – dice Luca, 63 anni, addetto alla distribuzione farmaceutica – Gli interessi sono più rivolti a chi esercita il potere piuttosto a chi lo subisce. Anche i governi di sinistra non hanno fatto molto". "Sono residente in zona, conoscevo di vista gli operai – si commuove Alfonso Figliuzzi, 50 anni, impiegato –Nel mio lavoro non rischio la vita, però pensare che un padre di famiglia che la mattina esce per andare a lavorare la sera non rientra a casa tocca chiunque".
Carlo Casini
Mattia Lupini