MARCO VICHI
Cronaca

Il direttore gli disse di avvicinarsi: "Fiore, uscirai fra una settimana"

Burro e parmigiano "Metterai la testa sulle spalle?". A questa domanda non seppe rispondere

Burro e parmigiano "Metterai la testa sulle spalle?". A questa domanda non seppe rispondere

Burro e parmigiano "Metterai la testa sulle spalle?". A questa domanda non seppe rispondere

Vichi

Il direttore stava leggendo il giornale, e senza guardarlo gli fece cenno di avvicinarsi. Fiore avanzò di qualche passo, poi si fermò e rimase immobile ad aspettare istruzioni. La stanza era grande e luminosa, con bei mobili e lampade costose. Non aveva nulla a che fare con il resto dell’edificio. Sulla scrivania fumava una tazzina di caffè. Fiore non sapeva dove mettere le mani, quel silenzio lo imbarazzava. Non era il silenzio che si può trovare in un campo di notte. In lontananza si sentivano voci e rumori di inferriate che si chiudevano. Era tutta la vita che sentiva chiudere le porte. Il direttore finì di leggere e alzò gli occhi. Bevve un sorso di caffè, poi si asciugò le labbra con un tovagliolino di carta. Fiore lo guardava fisso e quasi senza volere pensò: “Sei un porco, ti metti in tasca metà dei soldi che ti passa lo Stato per il carcere, e a noi detenuti ci dai da mangiare roba marcia”. Ma nello stesso momento si sentiva in colpa. Era colpevole di non essere come lui, come il dottor Speranza, un uomo libero e rispettato. Provò anche un senso di vergogna, perché sentiva di non avere più nessun diritto. Il dottor Speranza posò la mano sopra un foglio appoggiato accanto al caffè, e finalmente parlò. “Giuseppe Fiore?” “Sono io, signor direttore.” “Uscirai fra una settimana.” “Ah...” disse Fiore. Non se lo aspettava, non così presto. Ma non provò una grande emozione. “È tutto quello che hai da dire?” fece il dottor Speranza, un po’ minaccioso e un po’ paterno. “Se posso permettermi... non me lo aspettavo, signor direttore.” “Ti hanno scalato un anno per buona condotta.”

“Sono contento, signor direttore.” “Hai ancora voglia di tornare in carcere o metterai la testa sulle spalle?” disse il direttore, senza troppo interesse. Fiore fece un mezzo passo sulla mattonella. Mettere la testa sulle spalle... era una frase che aveva sentito milioni di volte. Voleva dire mettersi a lavorare dieci ore al giorno per una paga da miseria, con qualcuno sopra di te che ti umilia più del carcere. “Metterò la testa sulle spalle, signor direttore” disse. “Vedo qui che questa è la sedicesima volta che finisci in galera” fece il direttore, sfogliando distrattamente un fascicolo. Poi fissò di nuovo il detenuto, aspettando un commento da lui. “È l’ultima volta, signor direttore.” “La prossima sarebbe la diciassettesima, porta male... butteranno via la chiave” disse il dottor Speranza, convinto di aver fatto una battuta. “Se posso permettermi... questa era l’ultima volta, signor direttore.” Era strano parlare a un uomo più giovane di lui di almeno quindici anni con quel tono, come se fosse suo padre. Ma un altro modo non c’era. “Hai qualche idea di cosa farai?” “Sì, signor direttore.” “Sentiamo...”

“Vado a lavorare nella trattoria di un amico di mio cugino, signor direttore. A Poggibonsi.” “A lavare i piatti?” “No, signor direttore. In cucina.” “Sai cucinare?” In quella domanda c’era una punta di stupore. “Sì, signor direttore. So cucinare. Soprattutto la pasta” disse Fiore, e appena finì la frase sentì che aveva parlato troppo. Il direttore avrebbe potuto arrabbiarsi per tutta quella confidenza. Invece sorrise. “Potevi dirlo, magari ti avremmo mandato alle cucine” disse, con aria tranquilla. Nel suo sguardo passò anche un brevissimo lampo di soddisfazione. In fondo doveva sentirsi un buon padre di famiglia. “Se posso permettermi, signor direttore... per cucinare roba buona ci vogliono gli ingredienti giusti, signor direttore.”

“Ah, prima rubi alle persone oneste e poi vorresti anche mangiare bene... magari con il menu e la lista dei vini.” “Non ho detto questo, signor direttore.” “Complimenti...” “Se posso permettermi... volevo dire, signor direttore... che cucinare in carcere... sì, insomma... cucinare è bello quando è un divertimento... cioè...” Si bloccò perché capì di aver imboccato di nuovo la strada sbagliata. Tutte le strade erano sbagliate, in carcere. Dovevi sempre fare finta di non avere desideri. Avevi commesso un reato e dovevi soffrire per lavare le tue colpe. Un ragionamento che a prima vista sembrava giusto, ma se ci pensavi bene perdeva un po’ di senso, perché a dire il vero...

3 - continua