I misteri delle stragi in una foto Caccia alla verità, 29 anni dopo

Ecco l’immagine della ’biondina’ indagata: spuntò, nel 1993, da un misterioso arsenale di armi in Sicilia

Stefano

Brogioni

Sono passati 29 anni da quella notte di maggio del 1993. Quando lo smarrimento lasciò presto il posto a un’aberrante certezza: c’era la mafia dietro al Fiorino carico di tritolo piazzato in via dei Georgofili e i cinque morti e gli ingenti danni agli Uffizi sono stati il prezzo che anche Firenze ha pagato per quell’offensiva allo Stato.

Ma il perché di quell’attacco, chi lo abbia voluto, indotto, o suggerito agli esecutori materiali, non è ancora chiaro. E a 29 anni di distanza dalla strage dei Georgofili, la procura di Firenze indaga ancora.

La donna e l’autobomba. L’ultima, clamorosa evoluzione dell’inchiesta fiorentina riguarda il possibile coinvolgimento, nella fase esecutiva, di soggetti esterni alla mafia. Rosa Belotti, da Albano Sant’Alessandro, Bergamo, 56 anni, sarebbe, secondo i pm fiorentini, la “biondina” che un passante notò, per la sua avvenenza, scendere da una Fiat Uno parcheggiata in via Palestro: poco dopo, in quel 27 luglio, Milano pianse cinque morti causati proprio da un’autobomba.

Due mesi avanti, la sera del 26 maggio, una donna era stata notata pochi minuti prima dell’esplosione di via dei Georgofili. Fu un residente di via dei Bardi a raccontare ai carabinieri di aver visto una mora arrivare in Mercedes, discutere con due persone, prendere una valigia e ripartire, seguita da un Fiorino bianco. Da quell’avvistamento, nacque anche un identikit, il secondo femminile dopo la “biondina” autista di via Palestro. Oggi, la Belotti ha negato ogni suo coinvolgimento, a Milano e a Firenze, ma ha ammesso che è effettivamente lei, in una foto che venne trovata in un misterioso arsenale in una villa di Alcamo.

L’arsenale di Alcamo e la foto. E qui si entra in una sorta di rompicapo. Perché quella foto di una giovane e bionda Belotti, spuntò, nel settembre del 1993, tra armi che sembrano appartenere ad un’organizzazione simile a Gladio custodite da due carabinieri. A quel sequestro, gli inquirenti arrivarono grazie al poliziotto Antonio Federico, che a sua volta era stato destinatario di una soffiata da una sua fonte molto informata. Il misterioso confidente suggerì a Federico di sfogliare anche i volumi di un’enciclopedia. Tra le pagine, c’era appunto l’immagine di quel volto femminile, che però, in quel momento non era collegato o collegabile alle stragi che si stavano consumando e solo oggi a quella foto è associato un nome. Ma non definitivamente un perché.

I dubbi, a quasi trent’anni di quella stagione di nuova strategia della tensione, sono duri da dissipare. Neanche i pentiti parlano mai di una donna nella batteria delle stragi. Riferiscono invece di mandanti e manovre, a cavallo tra Mani Pulite e l’avvento di Forza Italia, per indirizzare con il sangue di innocenti la politica del Paese. Affermazioni che sono ancora tutte da dimostrare e che non hanno trovato riscontri oggettivi.

Riferisce Graviano. Giuseppe Graviano, “madre natura”, figlio del boss Michele assassinato nel 1982, è tra i condannati per la strage dei Georgofili. Tra il 2016 e il 2017, durante l’ora d’aria, venne intercettato mentre parlava con il compagno di cella Umberto Adinolfi. I discorsi sembrano riferiti al periodo antecedente alle stragi del 1993 e a un prestito da venti miliardi che alcuni siciliani, tra cui suo nonno, avrebbero elargito a un imprenditore milanese in ascesa, oggi pure lui nuovamente indagato a Firenze dopo le archiviazioni del passato: Silvio Berlusconi. I cui difensori hanno sempre argomentato sulla totale inaffidabilità del mafioso. La caccia alla scrittura che sancirebbe il prestito da 20 miliardi e al luogo di un paio di incontri tra Graviano e Berlusconi, è in corso. Confrontando le piante catastali di uno degli appartamenti in uso alla moglie di Graviano, a Palermo, gli uomini della Dia si sono accorti che era stato creato un anfratto segreto coperto da un muro. Quella stanza, però, è risultata vuota.

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