ANDREA CARUSO
Cronaca

"Pasta al burro e caprese. Così ho mangiato alla tavola dei poveri"

"Migranti, dite grazie". Dopo la protesta sul cibo ci ha scritto un lettore: "Io vado alla mensa dei poveri ma non mi sono mai lamentato. Il nostro cronista alla Caritas per un test a sorpresa

Mensa caritas (foto d'archivio)

Firenze, 3 settembre 2017 - «CHI SCRIVE questa lettera è un italiano che dorme e mangia senza alcun costo, ospite momentaneo della Caritas e del Comune di Firenze. Anche a me non piace cosa mangio (...) ma non provo nemmeno a pensare di protestare, anzi, ringrazio e ringrazierò all’infinito chi mi dà sostegno anche se con qualità modesta. Imparate a ringraziare anziché pretendere».

Chi scrive, chiedendo di rimanere anonimo, è un utente delle mense della Caritas, proprio come i migranti a cui la lettera è indirizzata. La protesta degli ospiti di un centro di accoglienza a Impruneta, motivata dalla scarsa qualità del cibo offerto, fa sorgere il dubbio: ma saranno davvero così terribili i pasti serviti dalla Caritas? Siamo andati a controllare con una visita a sorpresa.

Nella mensa di via Francesco Baracca, alle tredici e trenta il flusso di persone è solo in uscita. Un ragazzo africano mi accompagna all’ingresso, avvertendomi però che forse è troppo tardi per mangiare. Gli operatori della Caritas stanno già ripulendo, però mi consentono ugualmente di pranzare: basta un documento, zero domande, e ho già il mio vassoio. Il menù del giorno prevede spaghetti al burro, un piatto di caprese con insalata, tre fette di pane e tre susine. Porzioni talmente abbondanti, da costringermi a chiedere un sacchetto per portare via del cibo, che altrimenti sarebbe stato buttato.

«Certo che ci vengono anche gli italiani a mangiare qui - mi risponde un uomo peruviano sulla quarantina, come se avessi posto una domanda più che ovvia - la crisi c’è per tutti; ho perso il lavoro e finché non ne trovo un altro, devo venire per forza qui a mangiare». In sala ci sono ancora una ventina di persone, alcuni ospiti stranieri aiutano gli addetti della Caritas nella pulizia dei tavoli. L’italiano è la lingua comune con cui si parla e si scherza ad una tavolata dove siedono alcuni ragazzi dell’est Europa e un uomo di mezza età dai tratti somatici nordafricani che da uno zaino estrae un cartone di vino rosso. Alza il bicchiere di plastica, ma richiama severamente Ernesto, un ragazzo albanese che voleva accompagnarlo nel brindisi. «Non si fa con l’acqua, porta sfortuna», spiego, intromettendomi nella scena.

«Più sfortuna di così...Cos’altro ci può capitare?», risponde con una risata Ernesto. Ha trent’anni ed è in Italia da sette. Lavora saltuariamente aiutando come muratore, giardiniere o facendo le pulizie. Per lui e la moglie la Caritas è un punto di riferimento importante, non solo per mangiare, ma anche per ottenere assistenza e abbigliamento; in questo modo, a seconda delle giornate di lavoro che gli vengono pagate, può mettere dei soldi da parte per inviarli ai genitori in Albania. Non ci saranno chef e piatti stellati, ma in fondo «la mensa non è così male, dai, secondo te continueremmo ad andarci se si mangiasse male?».