Aveva scelto Pietrasanta come città dell’anima, dove lavorare e trascorrere più tempo possibile con la sua amata moglie Sophia. Ma era a Firenze che Fernando Botero aveva studiato ed era diventato un artista, frequentando l’Accademia delle Belle Arti nei primi anni Cinquanta. E fu sempre Firenze che regalò all’artista colombiano, scomparso venerdì scorso a Montecarlo, il primo grande palcoscenico che lo avrebbe consacrato e portato alla ribalta internazionale. Alla sua mostra al Forte Belvedere nel 1991, curata da Vittorio Sgarbi, accorsero critici da tutto il mondo. Fu un grandissimo successo e di lì a poco anche l’allora sindaco di Parigi, Jacques Chirac, offrì a Botero gli Champs-Elysées per una grandiosa esposizione delle sue monumentali sculture. Fece seguito la mostra di Park Avenue a New York e via via in tutto il mondo.
"Ho conosciuto Fernando Botero quasi per caso in Versilia nel 1989, dove era andato a vivere e dove aveva la fonderia Mariani come suo riferimento – ricorda Gianni Mercatali –. E rammento quando mi disse che fra i suoi desideri più grandi, il suo sogno, c’era quello di realizzare una mostra a Firenze. Ne parlai con l’allora vicesindaco e assessore alla Cultura di Palazzo Vecchio, Gianni Conti, che rese possibile due anni dopo lo straordinario evento al Forte Belvedere".
Il legame con la città non si è mai interrotto. Così, apprezzato e amato da tanti storici dell’arte, nel 1999 è Antonio Paolucci che chiede a Botero di portare le sue “esagerate“ figure, che condensano il rigore formale di Piero della Francesca e l’opulenza di Rubens, in piazza Signoria e nel Cortile degli Uffizi. Dopo quel nuovo abbraccio della città, il pittore e scultore decise di donare a Firenze una sua opera, la “Paloma“, il grande uccello in bronzo collocato all’ingresso dell’aeroporto di Peretola, quasi a salutare chi parte e ad augurare il benvenuto a chi arriva e Firenze. "Dopo la recente scomparsa della moglie Sophia, Botero sembrava aver perso il piacere della vita – continua Mercatali –, ma non lo aveva abbandonato la voglia di essere un artista. E per quanto dolorante ha continuato a dipingere fino a pochi mesi dalla sua morte".
"È stato l’ultimo artista classico italiano ispirato alla tradizione che va da Giotto a Piero della Francesca a Raffaello – ha detto Vittorio Sgarbi –. È stato un avamposto della resistenza della figurazione durante la dittatura delle avanguardie, osteggiato implacabilmente dalla critica. Sono stato suo grande amico e ho curato la prima grande mostra dopo il proibizionismo a Forte Belvedere, tra mille critiche, ma nessuno come lui, dopo l’aristocratico Baltus, ha rappresentato l’orgoglio della grande tradizione classica italiana con l’espediente giocoso d’ingrassare corpi e forme, e ciò lo ha reso amatissimo e anche odiatissimo da chi ha avuto minor successo e minor fortuna".