MARCO
Cronaca

Quarta condanna per lo stesso reato. Ma per lui la vendetta era un lusso

Burro e parmigiano Durante tutto il processo il giudice lo aveva guardato come un imbecille

Burro e parmigiano Durante tutto il processo il giudice lo aveva guardato come un imbecille

Burro e parmigiano Durante tutto il processo il giudice lo aveva guardato come un imbecille

Vichi

Durante tutto il processo il giudice lo aveva guardato come si guarda un imbecille, con l’aria di chi pensa: c’è chi ruba più di te e viaggia in Ferrari, ma la vita è così, c’è quello baciato dalla fortuna e c’è il coglione che paga anche per lui. In aula erano state ripercorse tutte le imprese criminose dell’irriducibile Giuseppe Fiore, a partire dai tredici anni. Dopo il primo arresto per borseggio era finito in carcere molte altre volte, per reati che andavano dal furto con scasso alla truffa aggravata.

Quella era la quarta condanna per lo stesso reato. Gli avevano dato dieci anni. Ne erano passati già nove. Erano cambiate molte cose in quei nove anni. La sua testa si era trasformata. Aveva letto moltissimi romanzi e aveva sognato molto, era stato picchiato e accoltellato. Aveva subito ogni genere di prepotenze, ma dentro si sentiva ancora intero. Era stato capace di buttarsi dietro le spalle ogni schifezza e ogni dolore, anche perché non aveva alternative.

Non poteva permettersi il lusso della vendetta, non aveva il fisico adatto. Dimenticare era la sola cosa da fare. Solo una faccenda gli bruciava ancora, come una sigaretta spenta sul collo: quella volta degli spaghetti.

Ci ripensava spesso. Rivedeva nella mente tutti i particolari, come in un film, e ogni volta il suo odio per quel secondino grasso si rinfrescava. Il secondino si chiamava Bobo, ma voleva essere chiamato signore. Quando non c’era lo chiamavano Cubo, perché era anche basso. In effetti non lo chiamavano solo Cubo, aggiungevano sempre qualcosa: cubo di merda, cubo del cazzo, e altre cose così.

Quella cosa degli spaghetti era successa sette anni prima. Poi qualche mese dopo Bobo era stato trasferito, e lui non lo aveva più visto. Ma il ricordo era ancora vivo, la rabbia era ancora tutta nel suo stomaco, a ricordargli quegli spaghetti e la pancia grassa di Bobo.

Sentì rimbombare in lontananza il rumore metallico che era costretto ad ascoltare ogni mattina da nove anni, un’inferriata che si apriva e si richiudeva elettricamente, come i cancelli dei ricchi. Poi sentì gli altri suoni che conosceva bene. Passi, mazzi di chiavi che dondolavano, altri cancelli, altri passi, voci, lamenti di stanchezza, risate, e a intervalli quasi regolari il rumore della barra di ferro che veniva passata sulle sbarre delle celle, per controllare che non ce ne fosse una segata. Era già ora di alzarsi, per andare a fare niente. I suoi tre compagni di cella scesero giù dal letto sbadigliando, e dopo aver lanciato un’occhiata al cielo intrappolato fra le sbarre s’infilarono le scarpe.

Nessuno disse nulla. La mattina parlavano sempre poco. Lui si alzò per ultimo e s’infilò le scarpe come gli altri. Poco dopo vennero ad aprire le celle. Un nuovo giorno era arrivato. Tutti in fila in corridoio per il primo appello.

A ogni nome rispondeva un urlo, e il nominato rientrava in cella. Quando il secondino chiamò il suo nome, lui disse “presente”, ma prima che potesse rientrare in cella sentì gridare di nuovo il suo nome. “Giuseppe Fiore, alle otto dal direttore.” Quella frase conteneva un altro messaggio: sistemati meglio che puoi e lavati bene, al direttore non piace vedere gente sporca. Subito dopo l’appello un secondino venne a prenderlo per accompagnarlo dal direttore, il dottor Speranza. Un nome che faceva quasi ridere, in un posto come quello.

“Non ho ancora preso il caffè” disse Fiore, con la caffettiera già in mano. “Non farmi incazzare” biascicò il secondino, e si avviò fuori dalla cella. Lui posò la caffettiera con un sospiro e gli andò dietro, seguito dalle risatine dei suoi compagni di cella. Affrettò il passo per raggiungere il secondino, un tipo sempre sudato che si chiamava Mario, soprannominato “il maiale” per certe somiglianze fisiche con l’animale. Non era nemmeno il peggiore di tutti.

Camminavano nei lunghi corridoi senza dire una parola, il secondino sempre un passo avanti a lui. Come sempre tutti gli orologi appesi al muro erano fermi, perché in carcere tutte le ore avevano lo stesso valore. Oltre l’ultima inferriata entrarono in un corridoio più bello degli altri, e dopo qualche passo il secondino alzò una mano per dirgli di fermarsi, poi bussò a una porta e aspettò di sentir dire “avanti”. Si affacciò dentro, entrò nella stanza, accostò la porta, e dopo qualche istante la riaprì. “Vieni” disse a Fiore. Lui entrò e rimase in piedi in mezzo alla stanza. Il secondino uscì subito e richiuse la porta.

2-continua