MARCO
Cosa Fare

Sfondai una porta a vetri: ero ferito La corsa disperata verso la mamma

Stavolta il gioco con mio fratello era finito male. Andammo subito in ospedale, dovevano operarmi

Marco

Vichi

Una domenica eravamo nella casa di campagna. Avevo sei anni. Giocavo in giardino con mio fratello. Era un gioco che facevamo spesso. Lui mi diceva: "Se non tocchi la ciccia della mamma..." e il resto della frase lo conoscevo bene: mi avrebbe picchiato. Toccare la mamma era il salvacondotto. Io scappavo come una lepre verso la casa, con i brividi nella pancia, spalancavo con una spinta la porta a vetri e mi lanciavo verso la mamma. Ero salvo.

Poco dopo il gioco ricominciava, volevo sentire di nuovo quel brivido… il pericolo, la fuga, la salvezza. Solo che quella domenica mio padre aveva mal di gola, e per non fare entrare aria fredda mia madre chiuse la porta a chiave. Mio fratello alzò le mani e fece la voce dell’orco: "Se non tocchi la ciccia della mamma...".

Scappai via come una lepre con i brividi nella pancia, mi lanciai a braccia tese verso la porta e la spinsi forte per spalancarla... ma la porta era chiusa. Era una porta a vetri. Sfondai i vetri con le mani e rimbalzai all’indietro. I miei erano già accanto a me, con la faccia stravolta.

Nel mio polso sinistro c’era uno sbrano lungo dieci centimetri, che grondava sangue come una fontana. Mi legarono un laccio all’altezza dell’ascella, stretto stretto.

Mia madre mi coprì il braccio con un canovaccio pulito per nascondere lo spettacolo, ma io avevo già fatto in tempo a vedere tutto. Il bianco dell’osso, i tendini che andavano su e giù. Partimmo verso l’ospedale, con il clacson che faceva da sirena e un fazzoletto bianco che sventolava dal finestrino. "Mamma, posso morire?" le chiesi, calmo. "Ma no, che dici? Ora ti richiudono la ferita e torniamo a casa" disse lei con un sorriso che non posso dimenticare. Se la mamma aveva detto così, ero salvo. Arrivammo all’ospedale.

Mio padre aveva la barba lunga ed era vestito da campagna, e in un primo momento le infermiere si spaventarono. Entrammo di corsa. Mi portarono con urgenza in una sala operatoria. Luce abbagliante, medici e infermieri chinati sopra di me. Non sentivo male al braccio, ma ero un po’ disorientato. Mi dimenavo come un pesce nella rete, dovevano tenermi in quattro, e il braccio ferito me lo legarono con dei lacci di cuoio. Il chirurgo cominciò a cucire… "Ecco un punto… un altro punto… un altro punto… a cinquanta punti ti danno la Mucca Carolina…"

Cercava di distrarmi, ma non era per niente facile. Mi voltai solo un attimo a guardare il braccio, vidi cucire un lembo di pelle, il filo che scorreva… e lo sentivo anche se non guardavo. "Quanti punti mancano?" gli chiesi. "Dieci… ecco, ne metto un altro… adesMso ne mancano undici…" disse lui, sorridendo. A quel punto da disorientato diventai furioso, non smisi più di offendere il chirurgo fino alla fine dell’intervento con tutte le parolacce che conoscevo, e non erano poche. Avevo la R moscia e la lisca, e ascoltare quella sequela di parolacce "da bambino" doveva essere davvero divertente, visto che il chirurgo e le infermiere non facevano che sorridere. Risultato: centoventi punti.

Quaranta per ogni strato di tessuto, dai muscoli alla pelle. Ma i tendini erano salvi.

Il chirurgo disse che ero stato molto fortunato. Rimasi una notte in ospedale, con la mamma. Quando tornai a casa mi sentivo fiero di quella ferita. Era una ferita di guerra, come quelle del babbo e del nonno che avevo sentito raccontare.