REDAZIONE AREZZO

Storie di alluvione / "Ambulanza piena di pane per aiutare Firenze": i racconti del '66

Giuseppe Tartaro e la missione rocambolesca in quelle ore con l'arciprete della Collegiata. L'urlo del bidello sulle dighe, la fuga. Poi angelo del fango

Giuseppe Tartaro

Arezzo, 14 ottobre 2016 - «Siamo saltati a bordo di un’ambulanza, che avevamo caricato di pane: e con quella siamo arrivati a Firenze». Giuseppe Tartaro oggi ha 74 anni ma ritorna in un secondo a quel novembre del 1966, alle ore dell’alluvione, quando ne aveva appena 24. In mezzo anni di scuola, di politica, di consiglio comunale, di impegno culturale per la sua Montevarchi: ma la barriera del tempo si sbriciola sul filo del telefono. «Il giorno dopo la tragedia monsignor Romagnoli, arciprete della Collegiata e un mito in Valdarno, riesce chissà come a procurarsi quell’ambulanza».

La burocrazia è una diga, oggi come allora, più resistente di quella della Penna: ma non per chi vuole ad ogni costo arrivare al traguardo. «Eravamo io, lui e un amico professore, Vincenzo Ducci. Siamo arrivati così a Firenze». Lo sguardo dal volante, un colpo d’occhio che dopo 50 anni ha ancora appiccicato addosso. «Sembrava travolta da un bombardamento, ci siamo trovati incastrati tra file di macchine che tentavano di uscire e file che tentavano di entrare». Loro con quelle pagnotte a bordo.

«Metti la sirena» comanda qualcuno, chissà se l’arciprete o i prof. L’autista prima tentenna e poi esegue. Obiettivo? «Un convento sulla collina, lì si erano rifugiati in tanti ed erano in difficoltà». Ma la corsa dalla burocrazia alle mani protese verso il pane si spezza, come gli incubi, all’ultimo ostacolo. «Trovammo un blocco con l’esercito, non ci fecero passare». Nuovi tentativi, nuovi sforzi: la risposta inequivocabile. «Di qua è tutto allagato».

Dietrofront, autoambulanza verso il centro. «Riuscimmo a fermarci in una piazzetta vicino al Duomo e cominciammo la distribuzione». Quei volti ancora li ricorda. «Gente non abituata a chiedere, più o meno benestanti: sembrava di stare dentro un film, e invece era la realtà». Realtà a tratti condita perfino di un sorriso.

«Si presenta in un angolo della piazza una signora imbellettata come se dovesse andare a teatro con tanto di barboncino bianco al guinzaglio. C’erano dei negozianti fiorentini in un angolo a spalare fango, le prime palate di un mese lunghissimo: non hanno resistito e con una palata hanno centrato lei e il barboncino. Zitta, neanche se la prese: forse aveva capito».

Il fango che dopo il trasbordo del pane Tartaro avrebbe spalato a volontà. «Siamo rimasti per una settimana: liberavamo la libreria di un convento, sempre nel centro di Firenze». Gli «angeli del fango», un’immagine che chi ha vissuto quelle giornate non ama granché ma che caratterizza una pagina della storia italiana. E forse anche della mentalità: quelli che, per dirla alla Don Milani, si interessano a ciò che succede.

Un brivido che per Tartaro era partito in Valdarno. «Mio padre aveva un negozio di abbigliamento e alle prime avvisaglie andammo a vedere se fosse allagato: da pochi giorni avevamo un’Appia usata, ne eravamo orgogliosissimi, e nel punto in cui confluivano due strade rimase in balìa di un mulinello. Ci salvarono due vigili del fuoco».

Quando era corso in Validano l’allarme sulla rottura delle dighe lui era a scuola,neoassunto. «Si è rotta la diga, si è rotta la diga»: l’urlo del custode se lo ricorda come fosse ieri. «Insegnavo a Terranuova, mi raccomandai di non avere fretta, che la scuola era in alto e quindi più o meno al sicuro. Però fu evacuata lo stesso. «Per strada mi prese un colpo: avevo lasciato il registro in cattedra, aperto perfino».

Che importa del registro in mezzo all’alluvione? Calma. «Lo so, feci una cosa sciocca: ma tornai indietro di corsa per recuperarlo, erano i miei primi anni di lavoro». In contemporanea la sorella Francesca nel fuggi fuggi generale fu calpestata dalla folla. «Nessuno che si fermasse a rialzarla: era il panico». Lo stesso panico che gli ha incollato addosso quella memoria: intrisa del fango al quale cominciava già a dare del tu.

di Alberto Pierini