Storia, vizi e virtù dei colossi industriali Dalla Lebole alla Buitoni: il futuro altrove

Giorgio Sacchetti nel suo libro analizza cinque storie di grandi aziende della città e delle quattro vallate nella transizione dal contesto rurale

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Stefano

Bartolini

Il libro di Giorgio Sacchetti, "Il futuro altrove" della Società storica aretina, è un buon modello di pubblicazione sulla storia del lavoro. Le province toscane sono territori con grandi differenze geografiche interne, con aree dotate di proprie storie locali. Come rendere conto di tali diversità nel momento in cui si prova a proporre una storia su base provinciale? Il volume lo fa presentando cinque casi di studio (la Lebole ad Arezzo, la Bianchi di Subbiano, la Buitoni a Sansepolcro, lo zuccherificio castiglionese, le miniere del Valdarno) che ci restituiscono percorsi autonomi e differenziati, pur senza rinunciare agli elementi di comparazione, inserendo il tutto in una cornice di insieme costituita dal lavoro e dal concetto di transizione.

Emerge un quadro che si muove a cavallo fra due transizioni, come osserva Alessandra Pescarolo nella sua prefazione. Dalla società rurale a quella industriale e poi da quella industriale a quella in cui viviamo oggi, che stentiamo a definire con chiarezza: postindustriale? Deindustrializzata? Il libro lascia in sospeso questa domanda, a cui ne aggiungiamo un’altra: la società post o deindustriale è veramente tale da un punto di vista di struttura produttiva o lo è solo sotto il profilo culturale?

È davvero sparita l’industria o questa è solo venuta meno come orizzonte mentale e quadro di riferimento dentro a cui inscrivere le traiettorie di vita, soprattutto per le generazioni dei nati a partire dagli anni Settanta del Novecento?

È una domanda a cui non sappiamo ancora dare una risposta univoca, ma che questo libro ci aiuta a inquadrare, ed a farlo dentro a precisi contesti territoriali, vicini all’esperienza di vita quotidiana delle persone.

Anche la chiave di lettura scelta ed esplicitata nel titolo è di grande interesse. Il futuro altrove è infatti un’intuizione che riesce a dar conto di due aspetti centrali che accomunano le storie qui ricostruite e dell’andamento dentro a cui viviamo.

Da una parte c’è la questione della mobilità del lavoro, che è una costante storica. Le migrazioni su diverse scale, nei nostri territori toscani spesso interne e su scale piccolissime, che portano dagli ambienti rurali alle città e ai paesi, che nel corso del XX secolo si trasformano in cittadine.

Migrazioni a volte di pochissimi chilometri, che precedono e poi affiancano quelle su più lunga distanza. Ma sempre di migrazioni si tratta. Non va infatti sottovalutata la distanza sociale e culturale che separava il mondo rurale da quello urbanizzato. Spesso spostarsi di pochi chilometri significava affrontare l’ingresso in un mondo completamente diverso, dentro a cui riadattarsi e dove ricercare le strade per nuove inclusioni comunitarie.

Dall’altra parte, il concetto di “altrove” si rivela essere anche una condizione mentale, un pensiero, un orizzonte culturale. Come dice Sacchetti l’altrove contiene tanto la speranza che la paura, il progetto e l’ansia. È un altrove che rappresenta un’alterità ignota rispetto alla vita condotta fino ad allora verso cui provare a fare il salto, senza garanzia del risultato.

Una condizione che accomuna le storie dei nostri bisnonni, nonni e genitori con il presente dei giovani italiani in movimento e con quello dei migranti che arrivano nel nostro paese, tutti ancor’oggi in cerca di “un futuro altrove”. Il libro poi è anche una storia del lavoro attenta alla dimensione del conflitto, alle forme di governo del territorio, alle trasformazioni che questa vi determina quando si impianta in una data area, alle reti di relazioni nelle società locali ed infine alla dimensione di genere.

Un altro elemento di grande interesse che emerge, è che costituisce un’ulteriore chiave di lettura, è la dimensione della pluriattività di chi lavora. È questo un termine che gli storici utilizzano a significare che le persone non sono mai definite da una singola appartenenza lavorativa (contadina, operaia, impiegatizia…) ma che queste identità si accavallano e sovrappongono. La pluriattività caratterizza le fasi di transizione, e non è difficile riscontrarla anche oggi. Connota la lunga transizione dal mondo rurale a quello industriale, con elementi contadini che si insinuano negli ambienti di fabbrica e di miniera, come l’alimentazione. L’esodo dalle campagne è qui analizzato soprattutto nella sua traiettoria che porta a divenire operai, più che microimprenditori (un salto che quando avviene è successivo).

È questo un passaggio su cui è necessario continuare a riflettere. Storicamente è stato ineluttabile, ma andrebbe messo in relazione non con un’idea di inevitabilità ma con la sconfitta del movimento contadino per la trasformazione dell’agricoltura, che aveva pensato a un futuro diverso e non altrove. Un tema che oggi si ripropone con forza di fronte ai fenomeni di ritorno verso le campagne e l’agricoltura. Un nuovo altrove per chi è nato nella società industriale e successiva. Il libro si chiude con un tentativo di inquadrare anche la dinamica delle relazioni sindacali, con importanti specificità locali, lette come elemento caratterizzante la modernità: le moderne relazioni industriali di cui a tutt’oggi non possiamo fare a meno.