Sangue a Renzino, l’ultima battaglia di Giolitti Le complicità locali, i richiami del governo

Prefetto e questore rimossi subito dopo i tragici fatti, che furono probabilmente all’origine della famosa circolare del vecchio premier

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Salvatore

Mannino

C’è un giudizio che da sempre pesa su Giovanni Giolitti, il più importante statista della storia unitaria, insieme a Cavour e De Gasperi, come una condanna non appellabile, quello di Angelo Tasca, il primo storico delle origini del fascismo (il suo libro Nascita e avvento del fascismo fu pubblicato in esilio in Francia nel 1938) che lo bollò come il "Giovan Battista del fascismo". E’ giustificata tale opinione alla luce dell’azione che Giolitti, presidente del consiglio e ministro dell’Interno, svolse a proposito dei Fatti di Renzino, di cui proprio ieri si è celebrato il centenario? Come fu possibile non tanto l’imboscata dei militanti di sinistra (imprevedibile perchè improvvisa) ma che gli squadristi scorazzessero per giorni e giorni nella zona di Foiano, provocando nove morti come rappresaglia per le tre vittime dell’agguato? Come potè accadere che i fascisti della spedizione della domenica di sangue fossero muniti delle armi prelevate dal presidio militare di Arezzo, con la complicità del capitano Giuseppe Fegino, comandante degli squadristi e al tempo stesso ufficiale in servizio attivo del 70° Fanteria? Come si può giustificare la sostanziale inerzia delle autorità locali, che consentirono ai fascisti di muoversi impunemente? Avevano avuto carta bianca dal governo, come sostiene qualche storico, oppure siamo di fronte a uno scollamento totale fra gli input del potere centrale e l’agire dell’apparato pubblico locale?

E’ un capitolo scottante, quello delle responsabilità dello stato per Renzino, Castelnuovo e San Giovanni (23 marzo 1921), Arezzo (10 aprile) e in generale per l’orgia di violenza che accompagnò l’avvento del fascismo qui, in Toscana, in tutto il centronord, nel pieno della campagna elettorale che si era aperta il 7 aprile con lo scioglimento della Camera. Un capitolo controverso, perchè in quelle elezioni i fascisti erano alleati di Giolitti e dei liberali nei blocchi nazionali da cui Mussolini uscì con 35 deputati eletti, fra cui ad Arezzo il valdarnese Dario Lupi, portavoce del più feroce dei fascismi agrari.

In realtà, per quanto riguarda almeno Renzino e alla luce della documentazione conservata presso l’Archivio Centrale dello Stato, il presidente del consiglio e il suo sottosegretario all’Interno Camillo Corradini furono fermissimi nell’opporsi alla complicità dilagante del potere pubblico locale e dei militari con i fascisti all’offensiva. Basti ricordare, alla vigilia, il duro richiamo che il direttore generale di Ps, senatore Giacomo Vigliani, invia al prefetto Alberto Giannoni: "Occorre azione autorità di Ps sia più energica, intendendo ministero che venga assolutamente posto termine alle azioni delittuose dei fascisti". E’ il 16 aprile, il giorno dopo la Domenica di sangue, disarmante la precedente relazione del prefetto: "Per intervento di forza pubblica e funzionario di questa prefettura inviati sul posto e per non avere i fascisti incontrato resistenza non avvennero conflitti". Il tutto riferito alla spedizione del martedì nella quale gli squadristi avevano devastato municipio, cooperativa e camera del lavoro.

Il 20 aprile, tre giorni dopo, dunque, dopo Renzino, Giolitti invia ai prefetti del centronord interessati all’offensiva squadristica la famosa circolare col suo nome, conservata nella busta "Arezzo" della direzione di pubblica sicurezza e lì riscoperta da Renzo De Felice: "Violenze fasciste tempo lotta elettorale disonorano paese e costituiscono grave reato...purtroppo forza pubblica in codesta provincia manca a suo dovere...l’avverto che la terrò personalmente responsabile dell’opera dei comandanti della forza". Poichè Renzino, insieme a una spedizione a Prato accompagnata dalle autoblinde dei carabinieri, è il solo, e più grave, episodio di quei giorni, è ipotizzabile che proprio la Domenica di sangue sia uno degli elementi scatenanti, l’ultima goccia, di questa durissima reprimenda, che resta peraltro inascoltata, perchè nessuno dei prefetti chiamati in causa, neppure Giannoni, si prende la briga di rispondere.

Infatti, il giorno successivo, il 21 aprile, che è anche quello del funerale dei fascisti ad Arezzo, Giolitti rimuove prefetto e questore Giovanni Masci, considerati responsabili del caos. Il giudizio più pesante e puntuale sul loro operato lo darà l’ispettore di Ps Paolella, inviato in città: "L’azione dei fasci ebbe inizio nel dicembre dello scorso anno..di tale stato d’animo non ebbero visione le autorità locali...che non si preoccuparono di seguire il movimento con la dovuta diligenza..in modo che mancò completamente quell’azione di vigile repressione che avrebbe forse potuto evitare in gran parte i luttuosi avvenimenti".

Ma perchè ciò accadde? Intanto funzionari pubblici (anche la magistratura apertamente complice) e fascisti provenivano in gran parte dalle stesse classi sociali borghesi e quindi avevano naturali affinità, senza contare la simpatia degli squadristi della bassa forza di polizia e carabinieri, che avevano per due anni, 1919-20, sopportato gli insulti e peggio della sinistra di classe all’offensiva e che ora si sentivano vendicati dai fascisti. Ci fu poi, al minimo, un malinteso machiavellismo dell’apparato pubblico locale: se Giolitti ci ordina di reprimere lo squadrismo mentre si allea con Mussolini, vuol dire è che è solo scena.

Invece il vecchio presidente faceva sul serio e prova ne siano i reiterati richiami del suo sottosegretario Corradini al nuovo prefetto, ai militari, al ministro della guerra Rodinò (popolare) che quantomeno li copriva, a proposito di Renzino. Fegino se la cavò senza neppure un procedimento disciplinare, tantomeno un processo penale. I due soldati Faconis e Poni, che avevano partecipato ai raid su Foiano dei giorni successivi, si videro infliggere sette giorni (dicasi sette giorni) di consegna di rigore, denunce all’autorità giudiziaria zero, con la scusa che il tutto si era risolto nell’imporre di alzare il tricolore in segno di lutto. Quelli che avevano consegnato le armi ai fascisti, a Firenze e Arezzo, vennero apertamente difesi dai superiori. Vane le sfuriate di Corradini: "Non risulta che i predetti ufficiali e militari, per aver partecipato ad atti indubbiamente delittuosi, siano stati deferiti all’autorità giudiziaria". Tutto inutile, solo il muro di gomma che avrebbe accompagnato il fascismo fino alla conquista del potere.