CLAUDIO
Cronaca

Petrarca, aretino vero e non solo per caso Il nonno e il padre avevano radici forti in città

Il primo era stato segretario del Vescovo Guglielmino degli Ubertini. Lui e il figlio lasciarono il Comune ghibellino dopo Campaldino

Claudio

Santori

Francesco Petrarca ha scritto di sé talmente tanto da essere il personaggio privato del quale abbiamo più dati biografici di ogni altro suo contemporaneo. Ed è questo uno dei problemi perché ognuno di noi ha la tendenza naturale, parlando di sé, a deformare la realtà più o meno consapevolmente, e messer Francesco non fa eccezione. Così a sessantatré anni, nel 1367, si decide a rivelare all’amico Boccaccio l’esatta data e luogo di nascita: “Sappi dunque che sono nato nl 1304 all’alba del 20 luglio, lunedì, ad Arezzo, in una via chiamata dell’ Orto” (Senili, VIII, 1). Ma 17 anni prima, tornando da Roma, aveva voluto fare una sosta ad Arezzo proprio per rivedere la sua casa natale e nell’occasione aveva scritto all’amico Giovanni d’Arezzo (Senili, XIII, 3) di aver visto la sua casa situata in un “vicus intimus”, una “viuzza al riparo da sguardi indiscreti”.

È ben difficile che questa viuzza sia via dell’Orto che era anche allora ampia e lunga (arrivava fino all’attuale seminario non essendovi la casa dove un simpaticone ottocentesco ha appeso la targa attestante la nascita di Guido Monaco) ed era abitata da gente d’alto bordo, come il notaio Ciuccio. Vi operava perfino come notaio, quando era in Arezzo, il nonno stesso del Petrarca, Parenzo di Garzo, che era anche il segretario del vescovo Guglielmo (lui e il figlio Petracco, padre del poeta, lasciarono Arezzo per Firenze all’indomani di Campaldino). Credo di poter indicare con alto grado di probabilità il “vicus intimus” nella viuzza che univa via degli Albergotti a via dell’ Orto a fianco del Palazzo Pretorio, oggi incorporata nelle strutture adiacenti: proprio allo sbocco di via Albergotti c’è attualmente la sede della Brigata degli Amici dei Monumenti nel cui muro sinistro entrando è scavata una nicchia con un crocifisso tardo trecentesco che non è pensabile in un’abitazione privata.

Prima sorpresa: la nascita del Petrarca ad Arezzo non è proprio tanto casuale e dovuta soltanto all’esilio del padre e del nonno, come è stato detto e ripetuto (anche ultimamente da Giuseppe Frasso): i due, guelfi bianchi, avevano una lunga e solida tradizione di rapporti con la città ghibellina! Quanto siano poco attendibili le “memorie” del Petrarca è attestato anche dalla famosa lettera in cui descrive quell’ascensione al Monte Ventoso che lo ha reso alpinista onorario: dichiara di aver scritto la lettera ancora preso dall’emozione dell’impresa, mentre sappiamo che l’ha scritta a tavolino 15 anni dopo (e probabilmente l’ascensione stessa se l’è inventata!).

Ma la sorpresa più grossa è quella che ribalta la storia “romantica” di Francesco con Laura: è ormai generalmente acclarato che Laura non sia una donna reale, ma un “senhal” di ascendenza trovadorica, che allude al “lauro”, cioè all’alloro poetico, non senza comprendere anche “l’aura” cioè il vento e “l’auro”, cioè l’oro: tutte cose collegate alla fama! Lo rivela proprio una lettura attenta della lettera al Colonna (Familiari, II) dove il Petrarca parla di Laura con l’amico e si meraviglia che egli non creda all’esistenza della donna: è evidente il tono scherzoso.

Avrebbe del resto dovuto generare almeno un sospetto la singolare coincidenza dell’incontro con Laura il 6 aprile del 1327 (Venerdì Santo nella finzione letteraria: invece era un lunedì!), e della sua morte di peste nel medesimo giorno del 1348! In tutto il Canzoniere (ben 366 liriche, soprattutto sonetti, ma anche canzoni, sestine, ballate) non c’è un solo episodio, una sola scena, un solo momento vissuto che sia riferibile ad una persona reale! Di fatto con quest’opera il Petrarca si pone direttamente o indirettamente alla base di sei secoli di lirica europea d’amore, oltretutto fornendo il testo ad innumerevoli musicisti, specialmente nel secolo d’oro della polifonia (anche se si aspettava la gloria dalle opere latine e in particolare dal poema latino “Africa”, composto sulla scorta dell’Eneide). Personalità inquieta, continuamente oscillante fra la vita mondana e il sincero desiderio di ripiegamento spirituale (rimase fortemente impressionato quando il fratello Gherardo si fece monaco) il Petrarca si riconobbe in un verso di Ovidio (video meliora proboque, deteriora sequor) che fece suo quasi alla lettera in un sonetto: “E veggio il meglio ed al peggior m’appiglio”!

Formatosi spiritualmente e umanamente nella Francia del sud, il nostro è il primo vero uomo europeo, viaggiatore instancabile e ansioso di conoscenza e di confronto con culture diverse. Si fermò negli ultimi anni fra Venezia (dove il Senato gli mise a disposizione uno splendido palazzo a patto che si impegnasse a lasciare alla Repubblica di Venezia la sua biblioteca!) e Padova dove soggiornò a partire dal 1368, più precisamente ad Arquà sui Colli Euganei, dove gli era stato donato un pezzo di terra dal signore Francesco Carrara: qui visse serenamente, dedito ai prediletti studi, con l’unico rammarico del mancato rientro a Roma da Avignone della curia pontificia.

Morì improvvisamente il 19 luglio del 1374 assistito dalla figlia Francesca e dal di lei marito (con l’altro suo figlio, Giovanni, non aveva un buon rapporto), nulla facendo trapelare sulla donna (o meglio le donne) che ha amato realmente e carnalmente a causa del celibato impostogli dagli ordini minori assunti in giovane età e mai deposti.