REDAZIONE AREZZO

Noi, sotto la lanterna magica Viaggio in un set di altri tempi È l’alba dell’età dell’oro del grande cinema italiano

"Margherita da Cortona" (1950) è il primo film girato nella provincia. I vicoli, gli sfondi, la musica medievale, la fotografia di Germi e Monicelli. I personaggi: dagli interpreti del muto all’attore di Fellini a Buazzelli e Pisu. .

Noi, sotto la lanterna magica Viaggio in un set di altri tempi È l’alba dell’età dell’oro del grande cinema italiano

Alberto

Pierini

Si chiama Margherita? Sì, come un fiore di campo". Gli occhi che bucano lo schermo, il velo bianco di chi già studia da santa, la musica dal sapore medievale che invade lo schermo, scandendo una festa di matrimonio al veleno e le evoluzioni della storia. E sullo sfondo gli scorci di una Cortona intravista più che vista. Perché gli interni sono realizzati negli studi degli stabilimenti Scalera, la Cinecittà degli anni ’30 e ’40, prossima alla a chiusura. Nel 1950, l’anno di "Margherita da Cortona".

È il primo film ambientato in provincia. anche se gli esterni spaziano da Montepulciano al Lazio, al Castello di Rota, a due passi dal lago di Bracciano. Una produzione ambiziosa, sorta di kolossal ante litteram. E che qua e là regala scorci tipici del cortonese. Nelle campagne set naturale di alcune scene. Ma anche negli angoli della storia.

Come Vicolo Iannelli. Uno degli scorci inequivocabili di Cortona, lì dove le case in mattoni rossi disegnano la curva del borgo antico. Nel film una madre chiede a Margherita di salvare la vita al figlio: la location, come centinaia film di un secolo, è individuata da Davinotti, l’occhio lungo tra le quinte del grande schermo. E che in questo caso è il sigillo ad un primato.

Quel film datato 1950 è il primo set aretino: bruciando le grandi produzioni di anni più recenti.

Aretino al punto di lanciare il cappello su ciò che aretino non è. Come Laviano, casa natale della futura santa, indicata come "località presso Cortona", in barba all’Umbria e al comune di Pozzuolo che la ospitano.

Un ritocchino alla geografia, un ritoccone alla storia di Margherita: il 1950 non era ancora maturo per raccontarne i risvolti, il fatto che una santa avesse convissuto con un uomo, fino ad averne un figlio illegittimo. Elementi che sarebbero stati il cuore della sua conversione, la chiave di modernità di una donna salita sugli altari dalla strada più stretta. E che il film trasforma, come solo il cinema sa fare.

Un cinema che in quella pellicola mette in campo le sue forze migliori. Il regista è Mario Bonnard, la firma di tanti successi dell’epoca, il creatore di Gastone, il personaggio che Petrolini e poi Alberto Sordi avrebbero reso celebre. Al centro di una squadra tecnica da major.

Come Leonida Barboni: quel bianco e nero praticamente perfetto era frutto del fotografo di riferimento di Pietro Germi, spalla fissa del regista, compreso "Il ferroviere". E che sarebbe stato la firma di "Divorzio all’Italiana", dei sogni di Renato Castellani, della genialità di Monicelli e della Grande Guerra. Eccolo lo stesso occhio a inquadrare gli scorci di un film che sarebbe rimasto nella storia di Cortona. La protagonista Bonnard l’avrebbe scelta dalla strada, anzi dalla sala d’aspetto di un ufficio. Lei, Maria Frau, 18 film in tutto, il ritiro dalle scene a 26 anni, inspiegabile. Dalle scene e dalla ribalta, dalla quale sarebbe riemersa dopo 66 anni di silenzio, con un documentario sulla sua vita presentato pochi mesi fa a Trieste.

Intorno sospesi tra il cinema muto e quello sonoro, tra la storia e la finzione. Il più celebre quello di Tino Buazzelli, futuro Nero Wolfe da 19 milioni di spettatori a puntata, più del Maigret di Gino Cervi. E che ad Arezzo sarebbe venuto a teatro tante volte, il suo volto campeggiava nei poster del Petrarca, fino alla "Bottega del Caffè" di Goldoni. Vestiti in costume per Margherita da Cortona, vestiti in borghese per tante altre storie.

Come Giovanna Galletti, la collaborazionista della Gestap che in "Roma città aperta" costerà la vita a "don" Aldo Fabrizi. Come Mario Pisu, il fratello grande di Raffaele, attore fisso di Fellini, Dolce Vita compresa. E voce come doppiatore di Gregory Peck e John Wayne. E figure apparentemente minori. Mino Doro, legatosi al fascismo al punto tale da perdersi negli anni del dopoguerra. O Galeazzo Benti: il "conte zio" Bentivoglio lo ripudiò perché faceva cinema, costringendolo a sincopare il cognome in Benti. O ancora come Peppino Spadaro, il fratello di Umberto, e che sarebbe morto in quello stesso 1950, poco dopo l’uscita di "Margherita da Cortona".

Sì, tra le pieghe rarefatte di quel film c’è un cinema italiano che si prepara alla sua età dell’oro. E lo fa da Cortona, tra scorci e musiche medievali. Tra baci per niente nascosti e che il macchinista di Nuovo Cinema Paradiso avrebbe tagliato prima della proiezione. Un film con i suoi anacronismi: può mangiarsi granoturco nel 1273, due secoli prima della scoperta dell’America? No, ma questo è il cinema. Lo stesso che ieri sera ha salutato il finale di Cannes.

E che allora dava l’abbrivio alla storia di una santa modernissima, celebrata nei giorni scorsi al Santuario. E ad una città che nel tempo avrebbe regalato i suoi sfondi ai racconti di Padre Brown, al pallido hollywoodiano "Sotto il cielo della Toscana", alla "Vita è bella" di Benigni. E al "Mattia Pascal di Monicelli con Mastroianni. Era in concorso al festival di Cannes del 1985. Con un fil rouge lungo come un tappeto rosso dal bianco e nero di Bonnard fino ai giorni nostri.