REDAZIONE AREZZO

L’Unità d’Italia arrivata fin qui col telegrafo dopo un Risorgimento lento e senza squilli

I personaggi fondamentali: Romanelli, ministro nel 1849, Falciai-Fossombroni, il deputato che votò il 17 marzo 1861 e il democratico Severi

Salvatore

Mannino

Parrà incredibile nell’era dell’informazione in diretta, dalla fonte al fruitore in una frazione di secondo, quando un evento fa il giro del mondo in pochi attimi, ma la notizia della proclamazione dell’Unità d’Italia, il 17 marzo 1861, centosessant’anni fa più tre giorni, ci mise ore per arrivare da Torino ad Arezzo, viaggiando sui fili del telegrafo con l’alfabeto Morse. I più del discorso di Cavour che dichiarava la nascita del Regno e di quello di Vittorioo Emanuele che ne assumeva la corona per sè e per i suoi discendenti, lo seppero addirittura il giorno dopo, dalle pagine della Nazione, che ci sia consentito l’orgoglio di dirlo, era anche allora il principale giornale di riferimento degli aretini, e dai manifestini murali voluti dalla giunta municipale moderata (il primo nucleo locale della celeberrima Destra Storica) che ancor di più erano la prima forma di informazione della popolazione, specie di quella meno colta ma che sapeva almeno leggere, fenomeno ancora minoritario in una città e in una provincia in cui, come nel resto della Penisola, l’analfabetismo era un problema di massa. Raccontano le cronache dell’epoca che l’evento fu celebrato con un sobrio ballo offerto nella platea del Teatro Petrarca, che non aveva ancora la facciata solenne su via Guido Monaco (sarebbe stata inaugurata solo nel 1882) ma al quale si accedeva dal vecchio ingresso, ora nascosto, di via Cavour, che a sua volta, col primo ministro in vita, si chiamava più prosaicamente Vallelunga.

Questo, però, è solo il culmine di un Risorgimento che in principio Arezzo e gli aretini avevano vissuto in maniera svogliata e anche sonnolenta. Non si ha notizia, ad esempio, della vivacità di presenze liberali, come l’Antologia di Gino Cappni, che si notava a Firenze già dagli anni ’30 dell’800, nè di un qualche interessamento verso i moti di emancipazione del 1821 e poi del 1831. Solo qualche sparuto nucleo di Carboneria e poi mazziniana Giovine Italia fra i più insofferenti del giogo non troppo severo della dinastia dei Lorena. I fedeli del Granduca da una parte, nella città che era stata l’epicentro del moto reazionazionario del Viva Maria nel 1799, e per questo con la Restaurazione si era guadagnato il titolo di capoluogo di provincia, i rivoluzionari dall’altro, senza niente in mezzo, nemmeno l’aristocrazia moderata di altri pezzi di Toscana.

Bisognerà attendere il biennio epico del 1848-49, quello delle rivoluzioni per la Costituzione e della guerra all’Austria, perchè anche tra gli aretini si noti un risveglio. Nella prima fase, quella liberale, anche la classe dirigente aretina si adegua al nuovo corso della politica liberale, con il gonfaloniere Giovan Battista Occhini (appartenente a una delle grandi famiglie cittadine) che garantisce l’appoggio alla svolta, anche se mette in guardia Firenze dalla leva militare di massa: servirebbe solo a fomentare gli umori reazionari delle campagne, dove i contadini sono in mano al clero più misoneista. Il che non impedisce la partecipazione di studenti aretini al corpo di volontari che si farà massacrare a Curtatone e Montanara.

I fermenti democratici si riassumono in un nome importante, quello di Leonardo Romanelli, che diventerà ministro della giustizia nel governo Guerrazzi cui va il potere agli inizi del 1849 con la fuga del Granduca Leopoldo II (Canapone). Ma i furori sono di breve durata: Arezzo si adatta facilmente al ritorno dei Lorena in quello stesso 1849 e quando in luglio Garibaldi in fuga da Roma, dove è caduta la Repubblica, si accampa sul colle di Santa Maria delle Grazie, il nuovo gonfaloniere (sindaco), il poeta Antonio Guadagnoli, ordina di chiudere le porte di una città che allora contava solo 10 mila abitanti dentro le mura e 36 mila con il contado. Persino la zona oltre Santa Croce era un sobborgo suburbano.

Ci sarà un tentativo di sollevazione per l’Eroe dei due Mondi, ma condurrà solo a una repressione con 250 arresti, Garibaldi deve riprendere la via della Romagna. La metafora di una provincia che si riaddormenta per quasi tutto il decennio seguente, l’ultimo scorcio della dinastia lorenese. Ci vorrà di arrivare al 1859 della guerra all’Austria e della nuova fuga del Granduca perchè Arezzo si risvegli finalmente liberale (L’Accademia Petrarca volle Cavour socio onorario), ma con una saldissima egemonia della Consorteria moderata. Lo dicono i nomi dei quattro deputati che la provincia manda all’Assemblea Nazionale Toscana, il parlamento provvisorio voluto da Bettino Ricasoli: sono Giovanni Guillichini (altra grande famiglia con palazzo sul Corso) e Lorenzo Papini, consorti per vocazione, cui si uniscono Leonardo Romanelli e Francesco Viviani, ormai covertiti al moderatismo.

Il primo deputato alla Camera di Torino sarà invece un altro esponente della Destra toscana, Enrico Falciaj-Fossombroni, erede adottivo di Vittorio, a lungo ministro granducale, risanatore dela Valdichiana, la cui statua domina ancora piazza San Francesco, cui nel 1886 toccherà anche la nomina regia a senatore del regno. E’ lui a votare nella famosa seduta del 17 marzo.

A sinistra, intanto, sta nascendo un vivace gruppo di vocazione garibaldina, che fornirà 366 volontari (160 in città) nella guerra del ’66 e nella spedizione di Roma del ’67, che si conclude con la disfatta di Mentana. Alla vigilia è Garibaldi in persona che parla agli aretini dal balcone sul Corso di quella che era allora la dimora del sindaco (moderato) Pietro Mori (cui si deve il primo piano regolare con il boulevard di via e piazza Guido Monaco) e che ora è inglobata nell’ex sede storica di Banca Etruria poi Ubi e ora Bper.

Quel gruppo di entusiasti è il nucleo dal quale nasce un partito democratico (radicale di diceva allora) che ad Arezzo subentrerà all’egemonia della Destra dagli anni ’80 in poi. Il capo carismatico si chiama Giovanni Severi, ha combattuto nelle ultime guerre d’indipendenza, diventa deputato nel 1881, dopo essere stato battuto l’anno prima da Pasquale Villari, padre del meridionalismo, in un tiratissimo ballottaggio nel collegio aretino. Anche Severi verrà nominato senatore da Vittorio Emanuele III nel 1904, morirà nel 1915, proprio mentre scoppia la Grande Guerra. Ma è decisamente un’altra epoca.