
di Erika Pontini
La fatica di Laura è lavorare in un’azienda otto ore al giorno e, solo dopo, prendere le scarpette e correre in campo. Sudore e passione. Perché ancora il calcio, per una donna, non è un lavoro ma voglia di farcela, anche contro il pregiudizio. "Le bambine che giocano al pallone sono considerate maschiacci e le ragazze lesbiche". Laura Verdi, la ragazza che ‘sogna’ ancora Batistuta, è il capitano dell’Arezzo calcio femminile, è nata a Pratovecchio Stia, ha 29 anni, una casa che divide con il fidanzato, un lavoro alla Miniconf, e il sogno della serie A.
Capitano o capitana?
"Capitano va benissimo, non dobbiamo essere noi le prime a creare distinzioni".
Ventinove anni sono troppi per giocare a calcio?
"Fisicamente no, è la vita che faccio che costa sacrificio. Lavoro, mi alleno, torno a casa alle 21… Se il calcio diventasse un lavoro sarebbe più facile".
E invece?
"Il calcio femminile non è parificato a quello maschile. C’è tanta strada davanti. Manca chi crede in noi. Qualcuno ci prova, come il nostro presidente, spero ci riesca".
Prima il tennis, poi il calcio....
"Giocavo con i compagni di scuola nel campetto vicino casa ma in Casentino non c’erano squadre femminili. A 17 anni ho cominciato: c’era una squadra amatoriale, poi sono andata all’Arezzo, dopo una parentesi a Perugia, era troppo distante".
L’ostacolo più evidente?
"Superare la discriminazione, una bambina che gioca a calcio viene presa in giro dai compagni. Anche se a me non è accaduto. Le considerano maschiacci e invece è uno sport come altri e poi le famiglie. Io sono stata fortunata ma molte ostacolano la scelta".
Passi avanti?
"Oggi con tutta la campagna nata intorno al movimento femminile questi stereotipi spero vengano superati ma certo, da lì a dire che è equiparato al calcio maschile ce ne corre".
E invece?
"Servirebbe la parità di diritti".
C’è uno stigma che accompagna il calcio femminile: se fai la calciatrice significa che sei omosessuale. E’ così?
"Sì, si avverte. Come il ragazzo che fa danza è gay. Ma devono essere brave anche le calciatrici a non far passare questo messaggio: alcune non giocano per passione ma perché è uno dei luoghi dove possono esprimere la propria sessualità senza essere discriminate. Quando il calcio diventerà solo uno sport avremo vinto anche questa sfida e le bambine inizieranno a giocare solo perché è bello".
Uno stereotipo?
"E’ un problema culturale: molte, all’interno, si sentono più protette".
Quanto guadagni?
"Un rimborso benzina per andare ad Arezzo, appena qualcosa in più. Cifre irrisorie".
Tutta passione?
"Pura passione, non abbiamo un contratto, niente contributi. Se una guadagna 50 euro a fine del mese è tanto. Io non potrei mai pensare di lasciare quello che faccio per giocare a calcio. Niente contributi, malattia, maternità".
E i colleghi maschi?
"Chi milita in serie C come me non va a lavorare, fa il calciatore a tempo pieno e ha un contratto. Guadagna duemila euro al mese, anzi di più, a parità di impegno".
Ma voi lo fate a livello amatoriale?
"Per forza… Eppure abbiamo quattro allenamenti a settimana e le partite, anche noi".
Cosa servirebbe? E cosa cambierà con il passaggio al professionismo per le calciatrici dal primo luglio. Servirà?
"Nel calcio, come in altri sport, le donne non devono essere penalizzate. Speriamo che questo sia il primo segnale".
E in Italia?
"E’ una questione di cultura sportiva, lì si inizia a giocare a calcio da bambine per pura passione dello sport. Hanno strutture che in Italia ce le sogniamo".
Il tuo idolo?
"Batistuta, io sono tifosa della Fiorentina".
E una donna?
"Giulia Orlandi che è la mia compagna di squadra, ha sempre giocato nella Fiorentina: quando non trasmettevano la partita in tv facevo la Consuma per andare a Firenze a vederla. Poi è venuta da noi…".
E Sara Gama? Forbes l’ha inserita tra le 100 donne più influenti…
"Non può essere il mio idolo perché gioca nella Juve".
La ‘discriminazione’ della donne dipende anche dal fattore tecnico? Le partite sono meno spettacolari …
"E’ meno spettacolare, come la pallavolo, perché non è giocato alla stessa velocità e con la stessa forza. Ma il calcio femminile è più tattico".
Più testa e meno istinto?
"Le donne sono più predisposte ad ascoltare. Il ragazzo gioca per istinto, la calciatrice chiede, approfondisce e riporta in campo. Pensiamo di più".
Il tifo è poco. Vi aiuterebbe avere gli spalti pieni?
"Vengono i genitori, i parenti a volte nemmeno gli amici... Però con lo stadio pieno devi essere bravo a reggere la pressione".
Ad Arezzo la crescita della vostra squadra coincide con la crisi dei colleghi uomini. Dispiacere o soddisfazione?
"Dispiacere. Ho sempre tifato l’Arezzo e adesso, vedere la squadra ridotta così, fa male".
Nessuna competizione?
"Mi piacerebbe vedere femminile e maschile che giocano in B, che fanno le cene di Natale insieme... I contatti sono pochi. Ma vorrei che fossimo tutt’uno".
Il sogno nel cassetto?
"Una famiglia, giocare in B e magari in A prima di ritirarmi e vedere movimento crescere".
Un’utopia?
"Il presidente Anselmi ci investe soldi, tempo e ci fa sentire professioniste anche se non lo siamo… lui ci crede".
La ricetta magica?
"Purtroppo sono i soldi a fare la differenza".