La "gita dei condannati" fino al patibolo. Itinerario della morte e pubblico ludibrio

Il percorso da Palazzo Pretorio al Crocifisso delle Forche, passando da San Lorentino. Le regole dell’esecuzione come un dramma teatrale

La "gita dei condannati" fino al patibolo. Itinerario della morte e pubblico ludibrio

La "gita dei condannati" fino al patibolo. Itinerario della morte e pubblico ludibrio

Simone

De Fraja

Là dove c’era l’erba, ora c’è un supermercato. All’incrocio tra via Mochi e via della Chimera sopravvive un crocifisso recente ma con una storia più lunga: al Crocifisso delle Forche si conducevano al patibolo, per impiccagione, chi aveva subìto una condanna capitale: qui venivano issate le forche che l’iconografia d’archivio restituisce nella sua crudele semplicità.

Ma perché il campo destinato al supplizio estremo era posto fuori delle mura? Anche in epoca medioevale, prima che la cinta trecentesca, iniziata dal Tarlati, comprendesse l’area della stazione, il prato dove esercitava il boia era ai piedi di Poggio del Sole: fuori delle mura. Nel secolo XVI le nuove mura medicee ancora rinserrano la città ma è ancora evidente la dicotomia tra l’aperto e il chiuso: nella realtà urbana il limite è la cinta muraria e a questo si lega ciò che è puro e ciò che non lo è: una dicotomia tra vita e morte.

Nell’impiccagione vigeva il concetto che il reo dovesse soffrire il meno possibile e questo dipendeva anche dall’abilità materiale del boia: paradossalmente, doveva essere un buon boia. Raramente la pena della forca era comminata alle donne sotto le cui gonne appese si poteva sbirciare: era destinata soprattutto ai ladri, agli omicidi e ai banditi. Particolarmente rigida verso questi ultimi era la legge del 1637 che intraprendeva una vera crociata contro coloro che “secondo l’uso del volgo son chiamati assassini per ruberie, o delitti con violenza”.

Gran parte delle condanne registrate negli “Specchietti dei condannati” di Arezzo riporta il “bando della forca” che in percentuale minore veniva realmente applicato. Il momento della pena diviene dunque una sorta di spettacolo, come un dramma teatrale in cui tutti i cittadini hanno un proprio preciso ruolo e copione. Il boia, il condannato, i fratelli confortatori, il popolo che osserva, grida, inveisce e si sfoga lanciando sassi al condannato e talvolta al carnefice, quest’ultimo la figura della morte legittima. Il momento supremo è preceduto da numerosi atti che si ripetono ossessivamente a ogni esecuzione, divengono rito, così come descritto nell’Istruzione segreta per l’associazione dei Rei al Patibolo del 1757.

Particolarmente infamante, anche per la famiglia del reo, era la condanna a sfilare, al pubblico ludibrio con il “breve” appeso al collo che esponeva il reato commesso o ironizzavano sulla sorte del condannato. Di molte condanne i compilatori degli “Specchietti” hanno lasciato traccia stilizzando gli elementi essenziali che connotavano la pena. Il popolo, spettatore come in teatro, vedeva rappresentata una tragedia cui poteva prendere larga parte.

Di valore educativo, specialmente la condanna alla forca, aveva un lungo preambolo, contraddistinto da una altissima ritualità. Come dal manoscritto dell’Istruzione Segreta il reo, prima di giungere al luogo del supplizio doveva percorrere la cosiddetta “gita”: si trattava di un itinerario attraverso la città esposto al pubblico ludibrio, quasi come una sfilata allegorica in cui il condannato talora poteva essere anche torturato o mutilato.

La “gita” richiamava da vicino la “via dolorosa” e infatti prevedeva tappe di fronte a tabernacoli o chiese in cui il reo, fermandosi, veniva sostenuto, confortato o esortato e aiutato nella preghiera dai Fratelli dell’Associazione dei Rei al Patibolo. L’Istruzione Segreta prevede anche il sostegno del reo in preda alle più terribili angosce, oppresso, deriso o incitato dalla folla astante, con “una boccia con moscado e altri leggieri commestibili e ristorativi per rifocillare il languido paziente quando lo voglia”.

Il corteo, dunque, sfilava nel cuore della città partendo da Palazzo Pretorio (che oggi ospita la biblioteca), adibito a prigione ove veniva rinchiuso il condannato, e si snodava nella via di Vallelunga per uscire infine da Porta San Lorentino verso il supplizio. Il luogo, ancora oggi chiamato Crocifisso delle Forche, accoglieva i patiboli che venivano edificati per l’occasione.

Come erano allestiti i patiboli? La struttura della forca ricorda appunto quella del forcone per la paglia e il fieno, come fosse un pettine: due pilastri verticali sostengono un terzo disposto ad architrave da cui si fa pendere il cappio con il condannato. L’iconografia raccolta negli “Specchietti” mostra i sostegni verticali costituiti da fusti di albero con i tronconi dei rami laterali mozzati, e le abbozzate radici appena divelte. Il legname così utilizzato diveniva parte integrante, con l’appeso, di un tutto impuro: il patibolo infatti veniva innalzato con la partecipazione di molti uomini in modo tale da potersi suddividere, e quindi attenuare, la macchia che da tale nefanda costruzione automaticamente derivava.

Il condannato veniva issato sulla scala con le mani legate e con la schiena rivolta verso i gradini. Qualora il nodo non si fosse stretto attorno alla gola, il boia doveva procedere ad appesantire il corpo dell’impiccato applicandogli pesi alle caviglie e, molto spesso, “consorti” lo strattonavano per le gambe. Il rituale proseguiva ancora con la rimozione del cadavere, la sistemazione di tutte le cose di proprietà, ivi compreso il legname della forca, ritenute impure.