CLAUDIO REPEK
Cronaca

La città delle donne. Le storie della Lebole tra mondo del lavoro e l’alba di un’età nuova

Il racconto di un’epopea: le "Leboline" cambiarono il profilo della città. Dalle contadine alla seconda generazione: la lotta per l’emancipazione. . .

La città delle donne. Le storie della Lebole tra mondo del lavoro e l’alba di un’età nuova

Lebole? Molto più che una grande industria. Per migliaia di ragazze degli anni Cinquanta e Sessanta è stata il passaporto per uscire dal confinamento nei campi o nella stanzina con la macchina per cucire. Un biglietto di sola andata per abbandonare una casa nella quale avrebbero potuto solo ubbidire prima al padre e poi al marito. È stata anche un vocabolario con il quale hanno imparato parole nuove: fabbrica, stipendio fisso, casa propria, stress, diritti, servizi sociali, sciopero, sindacato, partito. Tutto ciò che oggi appare ovvio allora non lo era. E nessuno ha fatto regali a quelle ragazze. Rileggiamo i loro ricordi.

La fuga dai campi. Franca per 3 anni chiede di essere assunta: "Alla fine sono entrata in fabbrica alla Chiassa (prima sede della Lebole, ndr) nel 1958. Avevo 17 anni. Fare la sarta era il possibile ‘doppio lavoro’ per le ragazze contadine: di giorno nei campi e la sera a cucire". Irma: "Eravamo ragazzine di 15, 16 anni. Chi ne aveva 18 era già considerata grande. A me come ad altre sarebbe piaciuto studiare ma non ne avemmo la possibilità. C’era il lavoro nei campi. E oltre a quello? Niente. Se non la fabbrica. E questo era un luogo misterioso. La motivazione ad entrare fu lo stipendio".

Gabriella era una ’sartina’: "Presi il diploma di taglio e mi misi in proprio. Guadagnavo circa 1.000-1.500 lire la settimana e non mi bastavano nemmeno per pagare le rate della macchina per cucire Singer che avevo acquistato. Entrai in fabbrica perché dopo un anno e mezzo di lavoro in proprio non ero in grado di continuare".

In fabbrica le giovani contadine e sartine conoscono lo stress e i ritmi frenetici. Alla Chiassa non c’era nemmeno la mensa: "Andavamo lungo il fiume con quello che avevamo portato da casa: pane, frittata, pomodori ed una salsiccia quando si ammazzava il maiale".

La vita quotidiana è dura: "La nostra era una corsa continua, sia alla Chiassa che poi in via Ferraris. Si entrava in fabbrica alle 7.30. Chi stava in città si alzava perlomeno alle 6: c’era da fare la colazione, preparare i figli e portarli dalla nonna o da parenti, c’era da arrivare in fabbrica. Chi stava lontano si alzava anche alle 4 e mezzo. E poi in fabbrica era tutto un correre: per lavorare, per andare in bagno, per trovare un posto in mensa. E poi per uscire e trovare posto nell’autobus".

Aggiunge Maria: "Una compagna di lavoro, la mattina presto, mi disse che la sera prima, dopo essere tornata a casa alla sette, aveva raccolto le patate, lavato, stirato, preparato la cena. E non si ricordava nemmeno, tanto stanca era andata a letto, se il marito aveva fatto l’amore con lei". Se le storie delle leboline sono segnate dalla fatica, quelle di coloro che leboline non sono riuscite a diventare hanno il segno del rimpianto. Marinetta: "Ero incinta di sette mesi e mi presi cura di tutti: della cognata per sei anni di fila, di due ragazzi di 6 e 7 anni e degli uomini di casa. Me la cavai. C’erano anche le bestie del padrone da curare: 14 vitelli, due maiali, pulire la concimaia, tirare su l’acqua del pozzo. Feci domanda per entrare alla Lebole ma avevo 1 anno di troppo: 36".

La Lebole sarà un luogo dove le ragazze diventeranno donne, le figlie saranno madri. E saranno loro a spezzare, per la prima volta, le tradizioni. Non a caso saranno considerate le "cattive ragazze" perchè scioperavano, manifestavano per strada, discutevano alla pari con i mariti e se ne separavano anche.

Facevano riunioni di sera, andavano a contrattare a Roma. Cose che per le loro madri erano impensabili. Figuriamoci per i loro padri. E i loro mariti. Le donne della Lebole hanno organizzato le commissioni interne in fabbrica e sono entrate, come nel caso di Adriana Sensi, negli organismi dirigenti, anche nazionali, del sindacato. Le prime bozze dei contratti nazionali dell’abbigliamento venivano elaborate qui. Sono entrate nei partiti: Gabriella Salvietti arrivò al

Comitato Centrale del Pci. Sono state elette nei consigli comunali e provinciale. Hanno ottenuto servizi fondamentali per le donne come le scuole per l’infanzia.

Hanno cambiato la vita delle donne e la storia di Arezzo.

Lo hanno fatto conquistando ogni piccola cosa. Nessun regalo. Quando, ormai stanche e adulte, non hanno resistito alla valanga della crisi hanno trovato pochi compagni per l’ultimo tratto di viaggio. Quello che nessuno le potrà mai togliere è una storia umana che era e rimane soltanto loro. Sono le amicizie e gli affetti maturati in decenni di vita comune. Otto ore al giorno per cinque giorni alla settimana fianco a fianco in catena. E poi alla mensa e sul pullman per tornare a casa. Le confidenze prima sui fidanzati, quindi sui mariti e infine sui figli. La condivisione di gioie ma anche di dolori, di speranze e di paure. Fino all’ultimo giorno quando la spolverina blu è finita nel cassetto dei ricordi e quella che era la vita di ogni giorno è diventata storia.