SALVATORE MANNINO
Cronaca

Il ritorno alla leggenda delle strade bianche

Nelle due corse in una settimana i partecipanti e gli appassionati riscoprono l’epica dei grandi del passato, da Bartali a Coppi

di Salvatore Mannino

Quel migliaio di temerari, dilettanti allo sbaraglio o allenati, specializzati o ex professionisti, che si arrampicheranno per due domeniche di fila sulle strade sterrate e le salite della Rampichiana e dell’Ardita magari non lo sanno, presi come sono dalla loro fatica, ma sono loro l’epica del ciclismo, quello sport che nella sua accezione più sincera è innanzitutto sofferenza, ostinazione ad andare oltre se stessi e i propri limiti, ma anche ritorno alle origini, quando non c’erano le Tv e l’apparato mediatico di oggi a trasformare i campioni in divi, che non sanno più spremere fino all’ultima goccia di sudore.

C’è stato un tempo in cui il ciclismo era popolare quanto il calcio e persino di più. Era l’epoca dei Coppi e dei Bartali, dei Guerra e dei Bottecchia, dei Girardengo e dei Magni, dei Koblet e dei Kubler, diciamo dagli anni ’20 fino agli anni ’50. C’è da domandarsi allora cosa rendesse quei fuoriclasse così speciali, cosa desse loro una fama che oggi è piuttosto dei divi del pallone, cosa spingesse la gente comune ad aspettarli ai lati delle strade nelle grandi classiche come la Sanremo e la Roubaix o nelle grandi corse a tappa come il Tour e il giro d’Italia. E forse una risposta c’è: appunto le strade bianche, quelle che adesso vengono rinverdite dai lontani epigoni della Rampichiana e dell’Ardita.

Cosa è in fondo che stimola la fantasia del pubblico, rendendo memorabili certe imprese? C’è da dubitare che siano le performances, pur straordinarie, dei grandi passisti contemporanei, quelli che corrono contro il cronometro ma non attaccano in montagna. L’essenza del correre in bicicletta è lo scatto in salita, il campione che, come un Dio erculeo, stacca tutti e se ne va solitario verso il traguardo, sfidando la fatica bestiale della strada che si impenna, specie se quella strada non è un tappeto d’asfalto liscio come un tavolo da biliardo, ma un percorso sterrato nel quale si può perdere tutto.

E’ quanto fece Bartali nel Tour del ’48 in cui si favoleggia che abbia salvato l’Italia dalla rivoluzione. Due tappe alpine in cui recuperò tutto il distacco accumulato per presentarsi in maglia gialla a Parigi. E’ quello che fece anche Coppi nella leggendaria Cuneo-Pinerolo del gito d’Italia 1949, da solo su cinque colli alpini, non per niente sterrati, fino a tagliare il traguardo con 11 minuti di vantaggio.

E’ lì che nasce il mito del ciclismo eroico, è lì che nasce l’esordio favoloso della radiocronaca di Mario Ferretti: "C’è un uomo solo al comando, la sua maglia è biancoceleste, il suo nome è Fausto Coppi". E per fortuna, paradossalmente che non c’era ancora la Tv, perchè la bici è uno sport che ha bisogno di essere raccontato, di essere immaginato per diventare epico. Non è un caso, forse, che Gino Paoli abbia cantato Coppi e Paolo Conte Bartali: oggi non c’è più la stessa mitologia.

E’ quello il fonte battesimale, il lavacro purificatore da cui prendono spunto gare come la Rampichiana e l’Ardita: ritornare alle origini, alla ghiaia, alle gomme in spalla per ritrovare lo spirito più autentico di uno sport capace di evocare eroi, ancor prima di campioni. Ecco perchè le due corse che si svolgono nel breve arco di una settimana rappresentano un tuffo nel passato che diventa presente. Che sia mountain bike o bici d’epoca, è lo strumento che consente anche a gente normale, come la gran parte dei partecipanti, di ritrovare il tempo perduto, di immedisimarsi in un mito.