MARCO
Cronaca

Il racconto di Marco Vichi Il natìo borgo selvaggio ritrovato dopo quarant’anni

Lo scrittore racconta le emozioni del ritorno a Raggiolo di chi l’ha abbandonato da piccolo. I giochi con l’amico Doddo tra i ruscelli, le rocce e i fossati e la tentazione di cambiare idea.

Il racconto di Marco Vichi Il natìo borgo selvaggio ritrovato dopo quarant’anni

Marco

Vichi

La mattina mi ero svegliato con il desiderio di tornare nel natìo borgo selvaggio che avevo lasciato a otto anni, quando mio padre era stato trasferito per lavoro da Arezzo a Firenze, e qualche anno dopo a Milano, dove la mia famiglia era rimasta a vivere. Travolto dai giorni e dagli anni, non ero mai più tornato in quel piccolo paese del Pratomagno, e provavo una strana emozione, che aveva anche a che fare con la paura.

Guidando sull’autostrada mi sembrava di fare un viaggio nel tempo. La memoria si andava via via illuminando, mi tornavano in mente molte cose, immerse nella magia dell’infanzia… Le avventure nei boschi, le merende lungo il ruscello, il secchio pieno di castagne, le dita bucate dalle spine, le ginocchia sbucciate, una bambina che… appena la vedevo mi sentivo avvampare, senza sapere come mai… si chiamava… Camilla. Non mi vergogno a dire che di mia moglie mi innamorai anche perché somigliava a lei, a Camilla. Gli stessi capelli neri, gli occhi scintillanti, ombrosa e insieme luminosa. E il colore delle guance, sempre un po’ arrossate come se avesse fatto una corsa. Camilla… Se era ancora al mondo, adesso doveva avere più o meno cinquant’anni. Chissà se era rimasta a Raggiolo o se era andata a vivere altrove, come me. Sì, avevo paura… Mi fermai a un’area di servizio per fare benzina, e per qualche istante pensai addirittura di tornare indietro. Ma fu il dubbio di un attimo, poi continuai a viaggiare verso Raggiolo e verso i sotterranei della memoria…

Eravamo un gruppo di amici. Bambini scatenati, pieni di vita, che si lanciavano in avventure pericolose all’insaputa delle fiduciose mamme. Ci arrampicavamo sugli alberi, piazzavamo pietroni nei ruscelli tumultuosi per guadarli, scalavamo costoni di roccia, giocavamo a chi saltava il fossato più largo… Ero vivo per miracolo, mi veniva quasi da pensare.

Non avevo più rivisto nessuno di quei bambini, nemmeno per caso. Come accade quando si è piccoli, dopo un primo periodo di malinconia per le amicizie perdute, trovai altri amici e mi lasciai il passato alle spalle. Avevo scoperto che il mondo non era fatto solo di borghi e paeselli arroccati sulle montagne. Intorno a me si allargava una città da conoscere e da esplorare, prima la piccola Firenze, poi la grande Milano. Anche il Tempo faceva il suo lavoro, quello che sa fare meglio: inondare di nebbia la memoria. Ma dopo molto tempo, magari se lo vogliamo, può accadere che la nebbia si dissolva… E adesso, quasi ipnotizzato dal rumore del motore, rivedevo tutto, provavo quelle antiche sensazioni, sentivo i suoni, le voci, gli odori…

Poi c’era lui, Tommaso, soprannominato Doddo… Un ragazzino particolare, sempre appiccicato a me, sempre pronto a seguirmi in ogni avventura. Solo dopo molto tempo che non vivevo più a Raggiolo, capii che non aveva tutte le rotelle a posto. A quell’epoca mi sembrava solo un po’ goffo, ma era assai simpatico. Veniva preso in giro, ma senza cattiveria, così come facevamo di continuo tra di noi, senza che nessuno venisse risparmiato. Era il nostro modo di stare insieme, era l’affetto che si manifestava in ogni modo possibile. La presa in giro era il nostro collante. E Doddo era uno di noi, non veniva mai escluso, faceva parte della combriccola di scalmanati. Una volta un ragazzino che veniva da fuori si azzardò a trattarlo male… Venne circondato da occhi minacciosi, e subito scacciato dal gruppo, senza esitazione e senza appello. Doddo quasi pianse di commozione, per quel gesto di solidarietà, e si beccò una fraccata di pacche sulle spalle. L’amicizia non veniva mai messa in dubbio.

In città non avevo più ritrovato quella sana solidarietà di gruppo, indiscutibile e inconsapevole, che metteva tutti alla pari. Doddo era dei nostri, insomma. Anche se con me aveva un legame speciale. Lo sapevano tutti, e andava bene così. Si fidava ciecamente di me, ascoltava le mie ingenue fanfaronate, mi faceva sentire un condottiero senza paura. A volte andavamo in giro da soli, nei boschi a raccogliere noci e castagne, su al Pratomagno a correre intorno alle mucche, giù al ruscello a veder girare il ritrecine del mulino. Ricordavo bene quella pace, gli odori che esalavano dalla terra bagnata, i colori degli alberi e dei cespugli che cambiavano colore con lo scorrere delle stagioni.

Erano il mio mondo, cose normali, di tutti i giorni… ma con il passare del tempo erano diventate nel ricordo sempre più preziose e magiche. Dio mio, volevo davvero andare a Raggiolo e rivedere quei luoghi d’infanzia? Volevo davvero inquinare quei limpidi ricordi con lo sguardo di un adulto avvelenato dalla città? Sarebbe stato come lavarsi le mani sporche in un ruscello di montagna, pensavo. Insomma, volevo davvero ritrovare Doddo a camminare nei vicoli petrosi con lo sguardo del bambino mai cresciuto, o magari scoprire che era morto? No, non potevo fare una cattiveria simile alla mia memoria, non potevo profanare i miei ricordi, calpestandoli con i maldestri scarponi dell’adulto.

Doddo doveva rimanere per sempre il mio compagno inseparabile, il bambino un po’ particolare che mi guardava con stupore. L’unico gesto nobile che potevo fare era tenermi a distanza, non avvicinarmi mai più a quel borgo mitologico. Raggiolo doveva essere salvato, doveva continuare a essere una creazione della mia infanzia, un luogo limpido e intoccabile, così come l’avevo rivissuto guidando lungo l’autostrada… In quel borgo arrotolato in cima a una collina doveva andarci chi non lo aveva lasciato da bambino, chi non ci era mai stato, chi non lo conosceva, per respirare le magiche atmosfere che le sue pietre antiche di certo spandevano ancora…

Tornai indietro, e non raccontai mai a nessuno del rischio che avevo corso viaggiando verso il passato. Anzi, in fin dei conti durante quel viaggio ero tornato davvero a Raggiolo, avevo annusato la sua terra e i suoi alberi, avevo raccolto le castagne, mi ero sbucciato le ginocchia arrampicandomi sulle rocce, mi ero sporcato le mani di fango, mi ero avventurato nei boschi con il mio amico Doddo… Avevo visto e vissuto il borgo delle mie brame, senza farlo svanire davanti allo sguardo inevitabilmente indelicato di un adulto che calpesta la terra della sua infanzia.