
Gli scenari planetari non aiutano le nostre 1100 aziende del distretto faticano ad affrontare la concorrenza e l’instabilità mondiale, soprattutto se medio-piccole .
L’oro vola, nonostante il rimbalzo tecnico degli ultimi giorni, ma ad Arezzo non si brinda. Si lavora, si resiste, si combatte contro dazi e incertezze globali che pesano come il piombo. Perché qui, dove ogni grammo è sapienza artigiana, c’è poco tempo per festeggiare le impennate della Borsa. Quando il metallo brilla, a brillare dovrebbero essere anche le nostre aziende.
E invece? È tutta un’altra storia. Il 2025 è iniziato con un dato storico: l’oro ha superato i 3500 dollari l’oncia (oltre 95 euro al grammo), spinto da una domanda globale mai così alta e da una crescente sfiducia verso il sistema economico internazionale.
Eppure, in quella che è considerata la capitale italiana dell’oro, il clima è tutt’altro che dorato. C’è fermento, sì. Ma anche amarezza e un pizzico di rabbia. Il distretto orafo di Arezzo rappresenta un’eccellenza italiana. Oltre 1100 imprese, 8000 addetti, una tradizione che affonda le radici nella storia e che continua a innovarsi ogni giorno, tra design, tecnologia e artigianato di altissimo livello. Non è solo un settore produttivo: è un pezzo di identità del territorio, un cuore pulsante che dà lavoro a migliaia di famiglie.
Invece, in questa fase, l’oro che dovrebbe essere una benedizione rischia di diventare un peso. Perché i problemi non vengono dal prezzo, ma da tutto ciò che gli ruota attorno. La politica americana ha rispolverato una vecchia arma: i dazi, che pure già esistono in misura minore rispetto a quelli minacciati. Non si tratta di retorica o minacce, ma di barriere reali che rischiano di penalizzare pesantemente l’export.
L’amministrazione Trump, tornata alla Casa Bianca, ha già avviato un nuovo giro di vite sulle relazioni commerciali con la Cina, scatenando una risposta simmetrica da Pechino. Una guerra a colpi di tariffe che ha creato un’ondata di incertezza sui mercati. L’oro resta il rifugio per eccellenza, ma chi l’oro lo produce si trova stretto in una morsa: da un lato la domanda vola, dall’altro i costi aumentano e le vendite diventano più complesse.
La Cina ha aumentato in modo esponenziale le sue riserve auree (più di 6 miliardi di dollari in oro acquistati solo a febbraio) mentre ha dato il via libera a dieci grandi compagnie assicurative per investire in metallo prezioso attraverso la Borsa di Shanghai. E intanto il differenziale di prezzo tra oro fisico comprato in Asia e quello scambiato a Londra si allarga: segno che l’Est continua a spingere, ma anche che la logistica e i flussi commerciali si stanno complicando.
In questo scenario, Arezzo rischia di pagare un prezzo doppio: non solo la fatica di stare al passo con la concorrenza internazionale, ma anche quella di farlo in un campo di gioco sempre più instabile. I dazi colpiscono indirettamente anche i fornitori italiani, mentre la volatilità dei mercati mette in difficoltà la pianificazione industriale. Le piccole e medie imprese orafe, spina dorsale del nostro distretto, non possono permettersi di navigare a vista ogni volta che un presidente cambia idea sulle tariffe. In Europa, nel frattempo, l’attenzione verso i distretti manifatturieri è ancora troppo flebile. Il sostegno è debole, i meccanismi di tutela sono lenti. Eppure Arezzo non è un caso isolato: è un laboratorio del Made in Italy, un esempio di come tradizione e innovazione possano convivere. Ma servono certezze, regole chiare, aperture commerciali.
Gli investitori istituzionali continuano ad accumulare oro, come se il mondo fosse alla vigilia di una nuova era. I timori di una stretta finanziaria, l’erosione della fiducia verso il dollaro, l’instabilità delle valute globali: tutto spinge verso il metallo giallo. Ma chi ha fatto dell’oro un mestiere e una vocazione, si ritrova spesso invisibile nei discorsi della grande finanza.
Il paradosso è evidente: il prezzo dell’oro sale, ma l’ossigeno per le imprese cala. Soprattutto per chi esporta, per chi deve fare i conti con burocrazie diverse, con la lentezza della politica, con la solitudine di chi produce valore ogni giorno senza garanzie. Forse è arrivato il momento di alzare la voce. Di ricordare che l’oro non si crea nei forzieri, ma nelle mani esperte degli artigiani aretini. Che senza il nostro lavoro, quel metallo resta solo materia grezza. Arezzo merita più attenzione, più rispetto, più protezione. Merita politiche che sappiano vedere oltre i grafici e le speculazioni.
OroArezzo, il nostro salone internazionale, è la vetrina perfetta per raccontare questa storia. Ma una vetrina non basta se alle spalle non c’è un sistema che sostiene davvero. Serve una strategia, serve che Roma e Bruxelles capiscano che difendere il nostro distretto significa difendere un modello di sviluppo, creativo, concreto.
L’oro vola, dicevamo. Ma Arezzo vuole camminare con le proprie gambe. Non basta brillare in Borsa, serve brillare anche nelle botteghe, nelle aziende, nei laboratori. E per farlo servono scelte coraggiose. Perché quando la bellezza è sotto assedio, non resta che combattere per difenderla.