SILVIA BARDI
Cronaca

Filosofia, musica, teatro: quando il carcere apre le porte all'arte

Esperienza pilota in Italia per il carcere aretino di San Benedetto che ha visto detenuti uscire da attori professionisti o con una laurea in filosofia. Il direttore Paolo Basco spiega perché fare entrare il mondo fuori è una scommessa vinta

Paolo Basco direttore del carcere

Arezzo 18 febbraio 2019 - “Essere un detenuto sembra pesare come un macigno per le persone che mi circondano, ma non per me. Mi chiedo allora come un detenuto possa superare domani l’insormontabile montagna dei pregiudizi che accompagneranno la sua vita futura, fuori dalle mura carcerarie”. Luca ha 49 anni, scrive questi suoi pensieri dal carcere di San Benedetto per il corso di filosofia condotto da Simone Zacchini e che ha portato “dentro" trenta “cittadini” a condividere per tanti pomeriggi il pensiero filosofico, diventato il libro “Sfogliare tramonti”. Sono 42 anni che Paolo Basco è direttore di carcere. Oltre ad Arezzo lavora e ha lavorato a Volterra, Orvieto, Massa Carrara, Rimini. Sin da subito ha cercato di trasformare la detenzione da punitiva a riabilitativa, “con una scintilla di umanità”.

In carcere sono entrati ed entrano il teatro, la musica, la filosofia, l’arte, la poesia, la ginnastica. Qui ad Arezzo si scontano le pene più leggere, non si superano mai i cinque anni. Chiuso a lungo per lavori di ristrutturazione, che dovrebbero terminare entro l’anno, il carcere ospita per ora circa 35 detenuti per 350 ingressi all’anno. Detenuti che diventeranno oltre cento a pieno regime. In questi anni sono usciti da qui attori professionisti, poeti, laureati. L’ultimo a settembre, proprio in filosofia, con 110 e lode. “Il nostro obiettivo non è continuare una sentenza giudicante - spiega Basco - ma arrivare al punto in cui possiamo dire alla magistratura che questa persona può fare esperienze esterne, avere permessi, essere affidato ai servizi sociali. Il carcere attraverso operatori professionali, università e volontari deve creare un ponte con gli organismi sani della società” Tutto è iniziato negli anni Novanta con il teatro e la compagnia “Il gabbiano” di Gianfranco Pedullà: “Avevamo già fatto questa esperienza nel carcere di Volterra e funzionava. Con difficoltà perché il turn over di fine pena ci faceva rimanere senza attori. Una volta un detenuto voleva rimanere, nonostante la scarcerazione, per andare in scena. Non fu possibile”.

Una esperienza forte, con il pubblico esterno e testi per niente facili come Woyzec o Aspettando Godot o Natale in casa Cupiello. “Il teatro aiuta perché indossando una maschera puoi essere te stesso. La filosofia invece, porta a guardarsi dentro, a scoprire parole ed emozioni. C’è stato chi prima di entrare in carcere si è dato fuoco e poi ha vinto concorsi di poesie. Chi ha confessato che quando era fuori e faceva le rapine per lui le persone non esistevano, poi quando è entrato ed è stato trattato come una persona si è vergognato di quello che aveva fatto. Dovremmo sempre prima sapere quali condizioni portano a commettere reati, dovremmo aiutare a far superare rabbia, aggressività, sfiducia, mancanza di speranza, rischio di autolesionismo. Noi ci basiamo sul rapporto umano perché non è inasprendo le pene e fomentando la paura che si risolvono i problemi”. Un’utopia? Forse, ma è così che la descrive Luca, detenuto: “Un mondo senza odio né pregiudizi, che accolga e accetti la diversità e conosca il perdono e la comprensione”.