
di Alberto Nocentini
Sufficiente da sola a far riconoscere come aretino chi la pronuncia, alò si definisce un “parola- bandiera” in quanto segnale di appartenenza a una città, a un comune, a un campanile. Esprime un’esortazione a muoversi, ad agire, a concludere e, se provvista di quello strascico che in grammatica porta il nome mostruoso di “paragoge”, alòe! acquista valore d’insistenza, d’incitamento spazientito e definitivo.
La sua origine è chiara: viene dal francese allons, 1^ persona plurale di aller ‘andare’ e fa coppia con alé, che deriva dalla 2^ persona plurale, il che spiega la differenza fra le due interiezioni; nella prima è coinvolto anche il parlante, mentre la seconda è rivolta solo agli interlocutori. Se però è facile indovinare la provenienza francese di alò, tutt’altra faccenda è stabilire il quando e il come. Chi ha masticato un po’ di storia andrà subito col pensiero al periodo delle guerre napoleoniche successivo alla Rivoluzione, quando la Toscana, Arezzo compresa, hanno conosciuto la presenza infestante dei nostri vicini d’oltr’Alpe. Ma verrebbe presto contraddetto se si prendesse la cura di scorrere qualche autorevole repertorio che illustri la storia dell’italiano.
Scoprirebbe così che alò ricorre già nelle commedie del notaio fiorentino Gian Maria Cecchi (1518-87), scritte in un linguaggio colorito e colloquiale. E infatti il lessicografo Pietro Fanfani, nel suo Vocabolario dell’uso toscano (1863), alla voce alò annota: "già fatta italiana per uso e per iscrittura da due o tre secoli in qua". D’altra parte per giustificare la presenza di un francesismo in italiano non c’è bisogno di scervellarsi a trovare un evento storico preciso. Il francese ha influenzato l’italiano per via diretta (per uso) e per via letteraria (per iscrittura) fino dai primi secoli e i francesismi presenti nella nostra lingua formano da soli un vocabolario.
Ma se la ricezione di alò risale almeno al Cinquecento, è legittimo chiedersi come mai il Redi, che compilò il suo Vocabolario Aretino nella seconda metà del Seicento, non l’abbia registrato e la stessa assenza si riscontra nella raccolta di voci dialettali che Raffaele Luigi Billi pose in appendice alle sue Poesie giocose (1870). La risposta è semplice: poiché sia nel Seicento che nell’Ottocento alò, come avviene oggi con alé, non era percepito come vernacolare, cioè come voce propria ed esclusiva della parlata aretina,.
Che cosa sia avvenuto in seguito ce lo fa intravedere un commento di Costantino Arlìa, che insieme al già citato Fanfani compilò Il lessico dell’infima e corrotta italianità (1881): "Giustizia vuole che la voce alò di rado ora si sente per incitare una persona a fare qualche cosa, ma si dice o via oppure andiamo". All’epoca infuriava la polemica sull’invadenza del francese più o meno come avviene oggi con l’inglese. Il capriccio del caso ha voluto che alò andasse fuori moda dappertutto fuorché nella nostra città, divenendo una voce vernacolare. È così che si determina la peculiarità di un dialetto: una parola scompare dovunque tranne che in una località e nel volgere di quattro secoli, quello che era un neologismo d’importazione è divenuto un termine D.O.C.