
"Ho imparato il mestiere da mio padre, spazzando la bottega": lo dice con orgoglio, così come una volta facevano i discepoli dei grandi maestri di pittura. Giampiero Sestini resiste, dalla sua bottega di Borgunto, alla rivoluzione del tempo. "Sono in una vecchia casa, sto valutando i mobili". Perché il paradosso del restauro in fondo è tutto qui: un’arte che sta perdendo di anno in anno i suoi interpreti e intorno una materia prima che fiorisce. "Con la crisi è scattata la corsa a liberarsi di tutto, a far fruttare i beni di famiglia". Anche poco, pur di sbarazzarsene e andare oltre. E lui, tra gli affari e l’amarezza, assicura che il lavoro non gli manca. "E se non ci fosse me lo inventerei, amo questo mestiere".
Ci sono stati periodi nei quali ad Arezzo si arrivava intorno ai sessanta restauratori: ora in città sono una quindicina, dai dati forniti con scrupolo dalla Camera di Commercio. E non è escluso che da dicembre, la data alla quale sono stati raccolti, qualche altro nome sia saltato.
"Un tempo si lavorava in botteghe collettive, perché la richiesta era continua. Ora sono da solo e così i miei colleghi che resistono". Un sigillo sfuocato di un’escalation che era salita a cavallo della Fiera. "Corrisponde anche ai miei studi, non ho mai avuto dubbi. Ma è un declino che c’è solo da noi: se vai all’estero il riconoscimento è assai superiori, anche sul piano economico".
Ma alla fine è l’unico a non preoccuparlo, mentre parla continua il suo expertise quasi quotidiano. "Il traino della Fiera si è allentato. Lavoravi prima di un’edizione per sistemare i pezzi e poi per rilanciare quelli acquistati. Ora il circuito si è come interrotto: gli oggetti di qualità li trovi, la potenzialità d’acquisto si è inaridita".
Ma non se la prende con nessuno: registra che un mondo è cambiato. "Dagli oggetti della memoria ti disfacevi malvolentieri, raccontavano della tua famiglia, dei tuoi nonni. Ora intorno all’antiquariato l’attenzione dei giovani si è spenta e al massimo in Fiera comprano piccoli pezzi". Le dimensioni delle case ci hanno messo del loro, la concorrenza di Ikea & c. ha fatto il resto. "Durante la Fiera c’è chi arriva a chiedere una consulenza o un parere: ma spesso tutto si ferma lì. Ai figli o ai nipoti interessa poco l’oggetto antico".
La cosa cambia un po’ con gli stranieri. "C’è chi non ha la ricchezza del tempo che vantiamo noi e ne soffre: e qui prova a recuperare una dimensione alla quale la sensibilità lo spinge". Di certo non nasconde sia stata un’occasione persa. "Venivano qui da tutta Italia e l’indotto della Fiera dava lavoro a tanta gente. Ripeto, non ce l’ho con nessuno ma anche gli amministratori, di tutti i colori, ci hanno creduto poco quando era il momento d’oro". Il rammarico dei pregiudizi. "Per i residenti in centro la Fiera è stata spesso più un disagio che altro, per gli altri contava più il Saracino".
Lui ha solo 60 anni e grandi energie: ma si riconosce in un altro mondo. "Mio padre era intagliatore e scultore, anche lui ha curato i restauri": lo ripete con orgoglio, che poi è lo stesso di quando rimarca le differenze nel tempo. "I più cercano tra i banchi un ricordino non un arredo importante per le loro case o un testimone della memoria di una famiglia". E la prova che l’approccio sia spesso sbagliato la coglie lì dove nessuno ti può ingannare: nel linguaggio.
"Li senti, raccontano al telefono di essere al mercatino di Arezzo. In pochi colgono la potenza di questa manifestazione. Nessuno ricorda l’indotto che aveva". Lui sì e se lo tiene stretto. Pronto, se necessario, anche a restare l’ultimo restauratore.
Alberto Pierini