
Simone
De Fraja
all’inizio del Duecento e nel maturo stesso secolo, che la città di Arezzo crebbe; crebbero la popolazione, la ricchezza e gli edifici fortificati cittadini. Venne sistemata la viabilità verso il contado per un maggior controllo da parte del potere centrale progressivamente esercitato dal vescovo, Guglielmino degli Ubertini, che riusciva a destreggiarsi con abilità diplomatica tra le fazioni avverse ed il crescente Comune. Crebbero anche nuove mura di cinta, parzialmente terminate, uno Studium di notevole prestigio, forse una secessione di quello bolognese e crebbero anche le mura di una nuova cattedrale intramurale sciogliendo l’antica dicotomia tra il polo della Pieve e quello di Pionta ove, secondo la passio, Donato aveva subito il martirio.
Fu un momento di crescita e di forti contrasti politici che, in buona parte, spinsero alla corsa dell’espansione urbana generando tuttavia contrasti tra il Vescovo ed il Comune che, dopo essere riuscito a conquistare fortificazioni ed istituzioni di antica fondazione, assegnava agli uomini lotti terrieri in città inurbando e concentrando popolazione tra le mura. Ma il lungo braccio di ferro tra i nobili e magnati, il popolo, il vescovo ed il Comune aretino era solo un frammento di un grande specchio che rifletteva similari situazioni di altre città Toscane: la frizione con le confinanti Siena e Firenze era fisiologica.
Una consistente parte delle pagine del volume di Canaccini introducono il lettore a questo maturo Duecento, fatto di spinte economiche e politiche in un gioco di precari equilibri sfociati, nella seconda metà del secolo, in importanti battaglie anche di scala nazionale quali Benevento, Tagliacozzo e Montaperti. Ad agitare le acque, rileva l’autore, contribuirono in larga parte i magnati guelfi di Firenze che, esclusi ampiamente dai consigli politici della città gigliata, pur di rientrare in gioco, misero in atto una strategia a dir poco spregiudicata, una sorta di lavoro di intelligence guelfa, per tornare alle redini del potere. Simili turbolenze politiche, ad Arezzo, spinsero un priore del popolo ad estromettere i magnati di entrambe le fazioni, guelfi e ghibellini, nonché il vescovo. Con questa lunga ricostruzione storica e politica, Canaccini colloca il lettore nel clima del tempo per meglio comprendere scelte e soluzioni militari e politiche del composito nucleo istituzionale di Arezzo e Firenze.
Prima di giungere al nodo del giorno di San Barnaba, uno scontro che fino all’ultimo l’Ubertini cercò di evitare, le pagine del libro analizzano con attenzione gli irrecuperabili equilibri politici e la rotta di collisione con le vicine città che condusse all’assedio del castello di Poggio Santa Cecilia, sulla frontiera senese, nonché agli eventi di Pieve al Toppo.
Ma è tra le ultime pagine che si coglie il senso e la portata dello scontro di Campaldino cui punta l’essenza del libro offrendo una lettura di un episodio militare che, per quanto studiato e conosciuto, viene analizzato da entrambe le prospettive di guerra. Ed è tra queste stesse pagine che trova spazio anche Dante, milite tra le schiere fiorentine; Dante che rimarrà colpito dalla figura di Buonconte e, forse inconsciamente, anche dalla macellazione dei corpi che il poeta rivive nell’Inferno, quando è circondato dai moncherini degli scismatici, ricordando con raccapriccio quanti rimasero sul campo. Ed è infine tra queste stesse pagine che l’Autore, più attento ed appassionato nel rievocare il “sabato di San Barnaba”, rivela la sua “casentinità” riconoscendosi emozionalmente debitore dei luoghi dello scontro dell’11 giugno 1289, Campaldino.