Bruciò viva la compagna: condannato a 14 anni per omicidio volontario

Dopo il ribaltone in Cassazione cambia la sentenza d'appello (la prima volta 10 anni per delitto preterintenzionale) e si torna al primo verdetto del Gup per il rogo della clochard nel 2014

Il bar dove la donna ha chiesto aiuto (foto Fornasari)

Il bar dove la donna ha chiesto aiuto (foto Fornasari)

Arezzo, 6 settembre 2018 - Aveva già ribaltato tutto la Cassazione, adesso arriva il suggello della corte d'assise d'appello di Firenze, che condanna a 14 anni per omicidio volontario il clochard che bruciò viva la compagna in un impeto di rabbia, follia e forse anche alcool. Per ora è la fine del caso di Guran Bunomi, il protagonista del delitto, per il quale la suprema corte aveva accolto in marzo il ricorso avanzato dall'avvocato Domenico Nucci, parte civile, rimandando il caso a nuova sezione della corte di appello  per rifare il processo, stavolta non per omicidio preterintenzionale ma volontario. Tutto ciò nonostante il pm di Cassazione avesse chiesto allora l'inammissibilità del ricorso e di conseguenza la conferma della condanna a dieci anni, contro i 14 del primo grado, che adesso tornano con il nuovo verdetto.

La storia è quella della donna bruciata per mano del compagno clochard. Il barista che la soccorse per primo raccontò di una donna arsa viva, come uno di quei bonzi che si davano fuoco per protesta durante la guerra del Vietnam. A cospargere d’alcool Maria Marin, rumena di mezza età senza tetto nè legge, e poi a darla alle fiamme con un accendino, era stato il compagno Guran Bunomi, anche lui un clochard, che i carabinieri presero la sera dell’11 settembre 2014, poche ore dopo il rogo ai margini di una capanna di via Duccio da Buoninsegna, nella zona dove fanno tappa i circhi.

Per il Pm di cassazione non meritava più della condanna a dieci anni per omicidio preterintenzionale inflitta dalla corte d’appello, riformando la sentenza del Gup Piergiorgio Ponticelli: 14 anni per omicidio volontario. L’accusatore del Palazzaccio aveva infatti chiesto che venisse dichiarato inammissibile il ricorso presentato contro il verdetto dalla procura generale di Firenze. A sostenere la tesi che il processo si dvesse rifare presso un’altra corte d’appello (quella di Perugia) e per omicidio volontario era rimasto solo l’avvocato di parte civile Domenico Nucci, che in aula rappresentava il figlio della vittima.

Il caso, all’epoca, destò enorme emozione e non poche polemiche dopo la seconda sentenza. Era l’ultimo giorno della Fiera del Mestolo e il clima di una città mobilitata per l’evento fu squarciato dalle sirene che correvano in via Mecenate, due passi da via Duccio da Buoninsegna, dove Maria Marin era riuscita a rifugiarsi in un bar. Col poco fiato che le rimaneva prima di sprofondare nel coma da cui non sarebbe più uscita fece un’accusa ben precisa: «E’ stato il mio uomo».

Lui all’inizio negò, raccontò che aveva fatto tutto da sola, ma il Gip non gli credette e confermò l’arresto. Così come non gli credette il giudice Ponticelli quando nel 2015 lo condannò per omicidio volontario. Un anno dopo, il 6 ottobre 2016, il colpo di scena in corte d’appello: omicidio preterintenzionale, lui voleva farla soffrire, non ucciderla.

Difficile da spiegare al figlio di una donna che aveva sofferto le pene dell’inferno, quelle degli ustionati, nell’ospedale di Genova in cui morì dopo settimane di agonia. E infatti lui non si è mai rassegnato, seguendo passo per passo, da parte civile, il ricorso della procura generale. Fino al ribaltone in Cassazione e alla nuova condanna di adesso.