Pelè, la 'Ginga' e il calcio 'bailado'

Il numero 10 della Seleçao era un rivoluzionario che risollevò il Brasile dalla sconfitta del Maracanà del '50, e lo portò per tre volte in cima al mondo

Roma, 29 dicembre 2022 - Maradona. E' la prima cosa che mi è venuta in mente, quando è arrivata la notizia che il Re, O' Rey, aveva chiuso gli occhi. Cioè, ho fantasticato sull'incontro, lassù, dove riposano le divinità dello sport. Di tutti gli sport. E naturalmente del futbol - o “fucibol” per dirla con la pronuncia tipica brasiliana – immaginando Diego, al settimo cielo per il trionfo di Leo e della sua Argentina, correre incontro ad Edson Arantes Do Nascimento con un pallone sotto braccio. E abbracciarlo per poi fare due palleggi e ridere insieme di quella vecchia questione: "Chi è stato il più grande, io o te"?

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Pelè nel 1961 (Ansa)
Pelè nel 1961 (Ansa)

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Storia vecchia, anche inutile, perché qui siamo di fronte all'arte più pura, all'affresco in perenne movimento. Al gesto tecnico e atletico che diventano opera d'ingegno mescolandosi con i colori della leggenda. Prendete la Mano De Dios di Diego: l'avesse segnato chiunque altro, quel gol di mano, sarebbe ancor oggi un disonesto da additare quale pessimo esempio. Diego no. Con Diego è diventata mito. E i gol di Pelè? Uno, dolorosissimo, in quella finale del '70 in Messico. Bellissimo, ma che male per noi italiani che pensavamo di aver scalato l'Olimpo in quella fantastica partita con la Germania, vero? Le statistiche dicono che O'Rey ne abbia segnati 1.281 in 1.363 partite. Lui non è stato solo gol e trionfi, è stato, come Diego, l'eroe che ha ridato orgoglio e fierezza a un Paese intero. Diego, con quella Mano De Dios agli inglesi si infilò a modo suo nella storiaccia e nei venti di guerra per le isole Falkland - o Malvinas, fate voi – e fu vendicatore e condottiero con un'arma non convenzionale: piedi, genio e testa, con una manina malandrina a far da detonatore.

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Pelè è stato un rivoluzionario in un Paese che viveva per il calcio e, dunque, per riflesso moriva ogni volta che finiva con una sconfitta. Anzi, per “La Sconfitta”.

E' il 16 luglio 1950, quando il Brasile perde 2-1 contro l'Uruguay al Maracanà di Rio de Janeiro, risultato che vale il secondo titolo mondiale alla Celeste. Quel tonfo, mortale per un Paese intero, è passato alla storia come 'Maracanazo', la più brutta sconfitta della storia brasiliana fino al 'Mineirazo', sequel dell'incubo con quell'1-7 contro la Germania in semifinale al Mondiale di casa del 2014. Pensate che dopo il 'Maracanazo' la nazionale brasiliana non giocò più per quasi due anni, fino all'aprile del 1952. Troppo umiliante tornare in campo. E poi, nel 1954, la maledetta Coppa America che sfugge quando sembra vinta, contro il Paraguay. E, ancora nello stesso anno al Mondiale svizzero l'eliminazione nei quarti, contro l'Ungheria di Puskas.

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In quegli anni, i padroni del pallone - di sicuro dal punto di vista tecnico - sono schiavi della sconfitta. Si convincono che bisogna giocare più all'europea per vincere. Ma non funziona. Nel 1958 però, un ragazzo di 17 anni che poi vincerà tre mondiali, risolleva la sua Nazionale e un intero Paese. E lo fa a modo sua, con la 'Ginga', il calcio 'bailado' che prende spunto dalla Capoeira, la lotta brasiliana che sprigiona armonia e prende forza con la musica. Danza e talento. Volteggi e gol. Finte, doppi passi e il dono di Dio. Lo fa, Pelè, contro la Svezia più forte di sempre, tanto forte da entrare nella leggenda: Liedholm, Skoglund, Hamrin, Gren. Lo fa, Pelè, convincendo quella messe di campioni, da Garrincha in giù, che il calcio brasiliano è quello ed è così che si vince, respirando la storia e la tradizione per poi tramutarla in arte futbolista. E infatti, quel Brasile vincerà il suo primo titolo mondiale spezzando una maledizione. Lo farà con due gol di O'Rey in un 5-2 finale scolpito nella storia. Lo farà con un ragazzino che brucerà mille record: più giovane del torneo, più giovane a giocare una fase finale, a segnare un gol e a siglare una tripletta, alla Francia in semifinale. Spesso la gente ci chiede, qual è stato il gol più bello di Pelè? Quello che non segnerà contro l'Uruguay, quando il 3-1 della semifinale mondiale del '70 è già in tasca, 3 a 1. Palla a Jairzinho che mica fa melina, la passa a Tostao che lancia Pelè nello spazio verso il portiere Mazurkievicz che gli corre incontro. Che fa O' Rey? Tira? Dribbla? No, fa il 'drible da vaca', il dribbling della vacca. Lascia che il pallone corra, fa una finta e non lo tocca mica, aggirando il portiere e saltandolo mentre la palla sfila beffarda. Difficile raccontarlo, andatevelo a rivedere su Youtube (https://www.youtube.com/watch?v=-UzRsvCsC4c) e capirete una volta di più perché Pelè era Pelè. E perché qualcuno di immenso, lassù, un giorno deve aver deciso che l'arte avrebbe potuto esprimersi non solo con scalpelli, pennelli, marmo e colori, passando per mani piene di talento. Ma anche con i piedi, un pallone e una capacità di leggere il campo sconosciuta a tutti noi, ma non a Pelè. Diego e pochi altri. Chi è più forte, allora, tra Pelè e Diego? Siamo seri: davvero importa a qualcuno?