Sempre più saracinesche abbassate. E non è tutta colpa del caro vita

I dati del Centro studi di Confcommercio fotografano il processo di desertificazione dei tessuti urbani. Tutte le categorie merceologiche soffrono a causa della concorrenza del boom dell’e-commerce.

Sempre più saracinesche abbassate. E non è tutta colpa del caro vita

Sempre più saracinesche abbassate. E non è tutta colpa del caro vita

VIAREGGIO

I numeri sono impietosi. In dieci anni (tra il 2012 e il 2023) in Italia si sono registrate 135mila cessazioni di attività tra negozi al dettaglio e commercio ambulante. Una morìa che impatta fortemente su città e paesi. E che si manifesta da nord a sud, nelle grandi come nelle piccole città. Ogni serranda abbassata, infatti, finisce con incidere sulla vitalità e vivibilità di isolati o interi quartieri. Un fenomeno che gli esperti non esitano a definire processo di desertificazione dei tessuti urbani.

La fotografia scattata dal centro studi di Confcommercio nazionale è impietosa: la densità commerciale nelle città è passata da 9 a 7,3 negozi per mille abitanti. Un calo del 20 per cento. Che colpisce indifferentemente ogni categoria merceologica. Così, se andiamo a guardare nel dettaglio quali sono le attività che hanno alzato bandiera bianca, si registrano -31% di negozi di libri e giocattoli; -30,5 per cento di punti vendita di mobili e ferramenta; -21,8 per cento di abbigliamento e calzatura. Soffrono leggermente meno i negozi di alimentari la cui flessione è di poco superiore al 10 per cento. Ma se un tempo un fondo rimaneva sfitto per qualche settimana oggi rischia di rimanerlo per sempre come testimoniano i tantissimi cartelli affittasi o vendesi che restano appesi per mesi anche in quelle che un tempo rappresentavano gli assi commerciali per antonomasia. Basta fare una passeggiata in via Fratti, in via Battisti, ma anche in Corso Garibaldi, via Matteotti, via SantAndrea, via San Francesco a Viareggio. Ma lo stesso vale per Camaiore, Massarosa, Seravezza e persino Pietrasanta e Forte dei Marmi. Anche se ci sono segnali di controtendenza. Come racconta il pullulare farmacie e parafarmacie (+12,6 per cento), i rivenditori di telefonini e computer (più 10,8 per cento), e bar, ristoranti e alberghi (+43,3 per cento).

La moria dei negozi e la resistenza di altri si spiega ovviamente con il boom dell’e-commerce. Anche in questo caso è sufficiente guardare i numeri: sono 33 milioni i digital shopper italiani e gli acquisti on-line nel 2023 hanno toccato i 54 miliardi di euro. Acquistare dal computer o dallo smartphone è più veloce (il risparmio di tempo è una variabile da non sottovalutare nella società attuale) e ci fa risparmiare (benzina, ticket di sosta in primis e anche questa – con il caro vita – è un’altra variabile di cui tenere conto). Un fenomeno inimmaginabile da arrestare. E su cui occorre avviare una riflessione, scevra da orientamenti ideologici, per comprendere come ridisegnare gli spazi che progressivamente si stanno liberando. Occorre considerare che la diversa struttura urbanistica tra centro storico e il resto del territorio comunale impatta in maniera differente sull’evoluzione della rete distributiva. Se nell’area urbana fuori dal centro storico la perdita di negozi potrebbe essere compensata, anche solo in parte, dall’apertura di altri esercizi, nel centro storico, invece, queste sostituzioni sono tecnicamente molto più difficili. È per questa ragione che le chiusure nei centri storici pesano di più, poiché possono causare una potenziale diminuzione dei livelli di servizio per i cittadini.

Se questi sono i numeri, quindi, che fare? La vera sfida è cominciare a immaginare la città tra venti o trent’anni quindi diventa un imperativo da cui partire per governare il cambiamento e non esserne travolti.