di Gaia Parrini
Una raffica di commenti. Opinioni, di rabbia, rancore, senza alcuna misericordia e indulgenza. Di questo, nell’ultima settimana, dopo la morte di Nour Eddin e l’assegnazione dei domiciliari a Cinzia Dal Pino, si sono riempiti Tessendo una rete, come spiega Massimiliano Panarari, professore di sociologia della comunicazione all’Università di Modena e Reggio Emilia, sempre più disincarnata, conformata e indebolita da ogni sentimento di pietas e compassione.
Professor Panarari, questo episodio ha scatenato reazioni molto forti sui social. Quest’ultimi, che ruolo hanno in situazioni del genere? Eliminano ogni senso di responsabilità di ciò che si dice?
"I social hanno una serie di caratteristiche. La deresponsabilizzazione, ad esempio, è collegata al fatto che si può usare un nickname, l’anonimato o nomi falsi e apocrifi. Tutto quello che si muove in rete è disincarnazione, nonostante il travaso da vita virtuale alla vita in carne ossa. La premessa di cui bisogna tenere conto è che le bolle di filtraggio e questa disincarnazione rendono tutto più facile. Questa distanza diventa una possibilità, che invece non si avrebbe in presenza di un interlocutore o in flagranza di evento che imporrebbe di ragionare e parlare in maniera differente. Dal punto di vista sociale e politico, poi, è diverso..".
Com’è, dal punto di vista sociale?
"Provoca l’effetto gregge, un’ondata di conformità. E man mano che il trend avanza e si accumulano post e tweet si asseconda questo effetto di conformismo, producendo un indebolimento della pietas e aumentando un effetto di durezza e ferocia rispetto ai protagonisti di un avvenimento drammatico come questo. Oltre che la velocità, perchè molti scrivono per una questione di emotività e forma di risentimento, rabbia e rancore che tendono a svilire la dimensione di compassione. Come slogan potremmo dire che i social hanno prodotto la morte definitiva della compassione, che stava già scomparendo in una società arrabbiata e monadica come la nostra. L’individuo in rete è così, e asseconda la tendenza di assenza di filtri. Quello che succede nei social, nonostante il nome, è un effetto di individualizzazione ancor più marcato, che provoca isolamento".
La sensazione, però, è quella opposta.
"Se un’opinione negativa cresce di numero e nessuno si oppone, le persone cadono in una spirale di silenzio, nel non esprimersi ed essere dissenzienti anche se è l’opinione più umana e attenta alla pietà. E sui social è più semplice perché le persone non ci mettono la faccia, rimangono nascoste dietro un account, crescono e si sfogano. Un altro fatto tipico delle reti social, inoltre, sono i chatbot, gli algoritmi che producono dei fed che facilmente manipolano l’opinione, spesso anche per seminare zizzania, per produrre disinformazione, elementi di destabilizzazione, aumentando le dinamiche negative. Non significa che i social di per sé siano negativi, ma come tutte le tecnologie c’è un uso positivo, uno manipolativo, e uno negativo".
Sarebbe, dunque, necessaria, un’educazione ai social?
"Avremmo bisogno in generale di una maggiore educazione. Nei rapporti sociali, nelle relazioni fisiche e sociali di tutti i giorni, ma a maggior ragione educazione in media. Serviva già dall’arrivo della televisione, ma oggi ancora di più perché c’è un travaso comunicante tra social, realtà virtuale e quella fisica che sdogana comportamenti antisociali e forme di collera e rabbia. Questa rabbia monta nei social, in bolle di filtraggio in cui è esaltata in logiche di profilazione commerciale, e, con questa rabbia, la persona si alza dalla scrivania, ed esce di casa".