C’è stato un tempo in cui l’avvocatura era "un mestiere per uomini", precluso alle donne anche dal punto di vista legislativo. C’è stato, poi, un tempo in cui le donne, invece, avvocati lo sono diventate. E c’è un tempo in cui le donne, legittimamente, rivendicano la propria professionalità e il diritto di essere appellate, nella loro professione, con il genere che le identifica. Come Marina Dini, avvocata che si occupa prevalentemente di diritto penale e che, da diversi anni, si occupa di violenza di genere, affiancando insieme ad altre colleghe il centro antiviolenza della Casa delle Donne.
Marina, ha sempre voluto diventare avvocata?
"Quando studiavo Giurisprudenza volevo fare la magistrata. Poi, dopo la laurea, ho svolto un tirocinio alla Procura di Firenze con un pubblico ministero nel settore delle “fasce vulnerabili“, tra cui i reati di violenza di genere. Dovevo studiare e analizzare i fascicoli, ogni giorno leggevo querele di donne che subivano violenza e ho avuto a che fare con un fenomeno di cui non conoscevo niente, se non per come se ne parlava in televisione in maniera inadeguata, come episodi straordinari causati da raptus o momenti di pazzia dell’uomo".
È qualcosa di più grave?
"Studiando ho capito che era, ed è, invece, un problema strutturale, in cui c’è una concezione della donna per cui l’uomo non le riconosce libertà. Per questo ho cominciato ad occuparmi di violenza, ho dato l’esame da avvocata, mi sono iscritta all’ordine, ho cominciato ad esercitare e a fare l’operatrice al centro antiviolenza della Casa delle donne".
Durante il suo percorso ha sentito il peso della discriminazione?
"Sì! Soprattutto nella difficoltà delle persone, in particolare di genere maschile, di riconoscere il mio ruolo, sia per la giovane età ma anche per una questione di genere. Collaborando con uno studio, mi capitava spesso di aprire la porta e trovarmi di fronte a persone che davano per scontato che fossi la segretaria o una praticante. L’idea che fossi io l’avvocata era quella più improbabile".
Qual è il suo ruolo al centro antiviolenza?
"Io mi occupo di penale, vedo tanti casi di maltrattamento, anche di violenza assistita di fronte a minori e casi di stalking. Con le altre tre avvocate effettuiamo orientamento legale alle donne che si rivolgono al centro".
Sono tante?
"Quest’anno abbiamo avuto 249 colloqui di orientamento, che sono tanti perché sono tante le donne che hanno bisogno di informazioni. Ci sono attualmente 52 procedimenti in carico, tra penale e civile, ed è fondamentale il ruolo del centro antiviolenza, che non è, come spesso si pensa, un centro di smistamento per supporto, ma le operatrici specializzate propongono un percorso di fuoriuscita dalla violenza sostenendo la donna dandole strumenti di consapevolezza e autostima per tutelarla e metterla in sicurezza".
Come possono cambiare le cose?
"C’è ancora tanto lavoro da fare. Anche se c’è una maggiore attenzione con interventi normativi, non sempre li si applicano in modo corretto. Aumentare le pene, ad esempio, è poco efficace se non si cambia l’approccio culturale e non si fa educazione sessuale e affettiva nelle scuole, che penso sia il punto di partenza. Sono deleteri, inoltre, gli stereotipi e i giudizi. Il fatto che si pensi che le denunce siano strumentali o che le donne le presentino per un altro fine le trasforma nei processi in imputate".
Diventa un’altra violenza?
"Se parti dal presupposto che una donna abbia mentito, il processo non è finalizzato a tutelarla ma a smascherarla e dunque assistiamo a domande colpevolizzanti e portatrici di stereotipi e fattori che nelle aule di tribunale non dovrebbero entrare".