
Pierfrancesco Ferrucci, il medico che nel 1984 ingannò da Livorno, con due amici il mondo dell’arte intero
Lo hanno ribattezzato lo scherzo del secolo. Pier Francesco Ferrucci insieme a Pietro Luridiana e Michele Ghelarducci, tutti livornesi doc, realizzò una delle tre teste ripescate nel luglio-agosto 1984 nel fosso Reale di Livorno. Tutti, o quasi, credettero che l’opera realizzata artigianalmente con il Black & decker e gli scalpelli dagli studenti universitari labronici fosse vera. Come le altre due scolpite dallo scultore livornese Angelo Froglia e anch’esse gettate nel canale. Erano false e il clamoroso errore diventò un caso mondiale. Vera Durbè, che aveva realizzato in città in quei giorni la mostra del centenario della nascita di Modì, giurava fossero quelle che Modigliani aveva gettato nel 1909 nel Fosso reale prima di emigrare a Parigi perché la sua città non lo apprezzava. La Durbè pianse dalla gioia ma quando la verità emerse perse il posto come il grande critico Giulio Carlo Argan.
Uno degli autori di quella clamorosa beffa, Pierfrancesco Ferrucci, adesso è uno stimato ricercatore ed è il direttore del dipartimento di oncologia Irccs Multimedica e direttore della struttura complessa di oncologia dell’ospedale Multimedica San Giuseppe di Milano. Oggi alle 18 sarà a villa Bertelli a Forte dei Marmi.
Come si sente pensando che è anche opera sua la più grande beffa della storia dell’arte?
"Questo episodio ha segnato positivamente la nostra vita, ha saldato la nostra amicizia e ci ha insegnato a muoverci in ambiti complicati dal sospetto, dal dubbio, dal falso, dalla ferocia dei mass media, dai tentativi di strumentalizzazione. Con la spensieratezza non superficiale dei 19 anni! Un pensiero ai nostri genitori che ci hanno lasciati liberi di vivere con sincerità momenti divertenti aiutandoci a dare un significato a quello che ci succedeva intorno...Nessun rimorso e nessun ripensamento: rifaremmo tutto nello stesso modo con gli strumenti di allora. Le teste adesso sono esposte al Museo della Città di Livorno".
Chi ebbe l’idea?
"L’idea fu di Pietro Luridiana, che reclutò Michele Genovesi e me. Poi io coinvolsi Michele Ghelarducci. Al momento della realizzazione della nostra testa c’era anche la mia fidanzata, adesso mia moglie, Elisabetta Ciuti che non ha mai voluto apparire ma ha vissuto con noi tutto il percorso legato a questa storia".
Quale differenze tra la vostra fake e le fake di oggi?
"Non sarebbe possibile fare oggi lo scherzo del 1984. Le circostanze e le coincidenze occasionali sono irripetibili, i social ci avrebbero smascherato immediatamente...e adesso saremmo influencer milionari".
La sua attività medica oggi. Un grande lavoro al servizio della scienza e la onlus che si occupa di sostenere ammalati e familiari.
"Nel corso del tempo, mi sono progressivamente reso conto che potevo utilizzare questo importante episodio della mia vita in senso “virtuoso” per aprire porte, avvicinare persone e creare empatia. In realtà l’ho sempre utilizzato anche inconsciamente con questo scopo. L’ho scritto sul curriculum perché volevo che si sapesse chi ero senza sovrastrutture, al di là delle competenze professionali. Ne parlo spesso con i pazienti, perché questo episodio aiuta a superare barriere".
I giovani di oggi inchiodati al telefonino non hanno creatività e ironia. E’ d’accordo?
"I giovani hanno creatività, ma non hanno molte occasioni per svilupparla. E non gli viene insegnato come fare, perchè la creatività è appiattita da una comunicazione standardizzata. I social forniscono continui input superficiali, semplici da gestire nell’immediato senza approfondimento".
Paolo Di Grazia