
La cucina di mare? Omologata. Tante salsine, addio tradizione. A rischio l’economia versiliese
Chi frequenta i ristoranti di mare si sarà accorto di una cosa molto spiacevole: dai menu è sparito il pesce "sano", cioè il branzino, l’orata e la mornora interi, al forno o alla brace. Dopo la pausa del Covid anche gli ultimi santuari delle tre T, terra tradizione e territorio, sono passati alla cucina contemporanea. Bocconcini, salsine, massicce dosi di umami giapponese: il quinto gusto, che altro non è che glutammato di sodio. Se non capite, mettete in bocca un pezzetto di dado per brodo. L’umami, coi derivati della soia, fa impazzire i cosiddetti critici gastronomici. Ma di critiche e stroncature s’è persa traccia. Tutto è celestiale, tutti sono geniali. Anche quando in bocca non c’è alcun sapore. A parte l’umami.
La Versilia, coi suoi 800 pubblici esercizi di somministrazione, dagli stellati ai sushi bar (ohiohi), può mettere a tavola 15 mila persone e quindi la ristorazione è una risorsa economica fondamentale. Da ottobre ad aprile i ristoranti saranno la principale attrattiva turistica della costa, capaci di fare di ogni weekend alta stagione. Ma stanno cambiando, la cucina è cambiata, il consumo dei prodotti ittici congelati e freschi, quelli pescati dalla marineria viareggina, è diverso da appena pochi anni fa. E veniamo da mesi e mesi di stangate energetiche. Stratosferiche per la ristorazione, tra gas e luce. Un settore che fattura milioni all’anno, e dà lavoro fisso e stagionale a un numero di versiliesi che oscilla da 2mila a 4mila, è fondamentale per la salute economica della Versilia. Sarebbe importante che la politica turistica, a partire dall’Ato Versilia, capisse dove andiamo a parare.
L’offerta gastronomica è cambiata nella forma e nel valore. Per varie cause, e anche colpevoli. La cucina consente trasmissioni tv a basso costo che dilagano in ogni frequenza: ma dalla tv non si sentono sapori e odori, quindi appare solo il disegnino del piatto. Si sono inventati i food-designer, cosa terribile come tutto l’inglese d’accatto, e ora in troppi ristoranti si sta più attenti al montaggio del cibo, che non alla sua preparazione. Le guide, a partire dalla Michelin: se non hai piatti col miso (soia), il katsuobushi (musciame di tonnetto fermentato e seccato), il ponzu, il teryaki, la carne wagyu, manco esisti. E così, nei ristoranti di alta fascia, la cucina di pesce ha subìto un’omologazione per cui (salvo lodevoli eccezioni) in uno stellato della Versilia, o a Firenze, o a Milano, alla fin fine ci sono le stesse cose.
Poi ci sono gli chef: attraversando le mode del pacojet e delle cotture a bassa temperatura, continuano a cucinare nei sacchetini perfino il polpo, facendolo diventare innaturalmente morbido ma anche asciutto e stopposo. "I clienti lo vogliono morbido", dicono. Spesso, sempre salvo lodevoli eccezioni, una cena elegante diventa una teoria di insalate, ingredienti accostati nel piatto ma non cucinati insieme, con fiori, cremine, salsine, emulsioni, ghirigori, spume, arie, crumble, polveri... Ecco: ma perché mettere polvere di olive o capperi quando nel Mediterraneo abbiamo olive e capperi "nature" di grande qualità e sapore? Che fine hanno fatto le polpettine di besciamella e crostacei? Gli sparnocchi bardati di lardo? Le acciughe alla povera? Scampi e maionese montata al momento? Gamberi cipolle e pinoli? Non si pescano più coltellacci, tutti importati.
A forza di creare, anche la cucina viareggina e versiliese si sta scordando le tre T: terra, territorio e tradizione. Quanti ristoranti in città propongono la scarpaccia dolce? Quanti a Camaiore la scarpaccia salata? Quanti invece le paste montate in bella vista con salse brodini e condimenti versati al piatto per fare scena ma senza mantecatura? Perché nei menu trionfano calamari, sparnocchi o mazzancolle foreste, cozze e vongole, ma il pesce di lisca latita, a parte qualche trancetto? Perché per una vera frittura di paranza bisogna fare ricerche su Google?
Purtroppo anche il doloroso capitolo dei costi ha il suo peso. I piatti contemporanei hanno salsine e ammennicoli vari pronti nei dosatori: cuoci un pezzetto di pesce, impiatti e il lavoro di cucina si alleggerisce tantissimo rispetto a quando ci volevano 40 minuti per un branzino all’isolana. Tanto, a questi prezzi, nei ristoranti di fascia alta vanno stranieri, nuovi ricchi, e giovani con le palanche, ma senza memoria dell’età d’oro della cucina. Anche la cena al ristorante è diventata "esperienziale", parola buona per la pubblicità perché in fondo in fondo non vuol dire nulla. Anzi, per tanti avventori una vecchia zuppetta di moscardini sarebbe l’esperienza mai provata. Comunque, finché dura fa verzura. Con la ripresa post Covid anche bagni e alberghi hanno alzato i prezzi e credevano di fare la grande imbottata. Non ha funzionato. Quindi, prima di ritrovarci a qualche sorpresa pure nella ristorazione, la politica del turismo dovrebbe prendere delle iniziative. Se a Firenze e in Versilia mangio le stesse cose, e vengo in Versilia solo per raccontarlo e sperare di incontrare l’influencer di turno, alla fine posso anche decidere che non vale la pena fare 200 km AR. Ato, facci un pensierino. Non si campa solo coi turisti milionari del Forte.