
Si apre oggi il processo per la strage ferroviaria di fronte alla Suprema Corte di Cassazione. Sono passati 11 anni e mezzo da quella telefonata, che ancora rimbomba: "Sono il macchinista del treno a Viareggio, abbiamo deragliato. Noi siamo scappati, ma qui è scoppiato tutto". Tutto. E’ scoppiato l’inferno a Viareggio la sera de 29 giugno 2009, quando un asse del treno partito da Trecate, e lanciato a 100 all’ora verso Gricignano, si è spezzato alle porte della stazione buttando fuori dai binari il carro, con 14 cisterne cariche di Gpl. Marco Piagentini, era sul divano, a guardare la tv. Sua moglie Stefania era su con i piccoli, con Luca, Lorenzo e Leonardo, al primo piano della casa di via Porta Pietrasanta quando da una cisterna, squarciata nell’urto, ha cominciato a fuoriuscire il gas. "Sembrava nebbia". Ma Marco capì subito che, con la prima scintilla, sarebbe esploso tutto. E’ successo alle 23.52, 4 minuti dopo il deragliamento.
Cosa ricordi?
"Tutto. Ricordo di aver preso Luca e di averlo messo in auto, mentre mia moglie stringeva Lorenzo in braccio. E mentre stavo tornando in casa, per prendere Leonardo, il più grande, ho visto uno tsunami, un’onda di fuoco. Allora d’istinto mi sono rannicchiato e ho trattenuto il fiato. Sotto le macerie non riuscivo a muovermi, ma ero consapevole di ciò che era successo... E mentre ero ricoverato in ospedale sentivo per telefono Leonardo, mi mi dicevano che Stefania e i bambini erano ricoverati, ma io sapevo che loro non c’erano più...".
Dove hai trovato la forza di rinascere?
"In queste situazioni ti lasci andare o scegli di vivere. Io guardavo le fotografie di mia moglie, dei miei figli: loro non hanno potuto scegliere, così ho deciso di vivere anche per loro. Insieme a Leonardo".
E per loro, insieme agli altri familiari delle 32 vittime è cominciata la storia dell’associazione ’Il mondo che vorrei’.
"Siamo rimasti sempre insieme, insieme abbiamo camminato controcorrente, resistito ad ogni pugnalata, studiato, coltivato la memoria, invocato giustizia, chiesto garanzie di sicurezza uniti da una promessa. Da genitori, da figli, da fratelli, sorelle, avevamo promesso che avremmo fatto il possibile affinché al termine di questo percorso ci saremmo guardati indietro senza avere rimpianti".
Durante questi 7 anni di udienze qual è stato il momento più difficile?
"Quanto lo Stato ha accettato i risarcimenti e si è defilato dal processo. Quando ci ha lasciato da soli a cercare la verità, a chiedere giustizia invece di rimanerci accanto per comprendere come e cosa non funziona del suo sistema ferroviario".
E quelli importanti?
"Quando abbiamo letto nero su bianco le motivazione delle sentenze, di primo e di secondo grado. Quando l’urlo dei ferrovieri che denunciavano carenze sulla sicurezza sui binari, anche a costo del posto di lavoro, sono state accertate prima dalle perizie e poi dai giudici".
Dopo oltre 150 udienze, per la prima volta non potrete essere in aula.
"Per noi essere presenti alle udienze in tutti questi anni è stato vitale, non poterlo fare a questo punto aggiunge dolore".
Cosa vi aspettate dalla Cassazione?
"Che i giudici attraverso la legge riaffermino quello che è stato già affermato. Che la strage di Viareggio poteva e doveva essere evitata".
E dopo cosa succederà?
"Continueremo a riempire l’armadio della memoria, affinché resti una testimonianza di ciò che è successo il 29 giugno e non si ripeta mai, in nessuno altro posto. E continueremo con i progetti per le scuole, ad incontrare i ragazzi e promuovere una cultura della sicurezza e della partecipazione".
L’ultimo pensiero, prima di questi giorni cruciali.
"Alla città di Viareggio, che in tutti questi anni ci ha coperto le spalle".
Martina Del Chicca