
Francesca Di Maolo, presidente dell’Istituto Serafico
Perugia, 8 marzo 2016 - Anche l’Istituto Serafico di Assisi celebra la ricorrenza dell’8 marzo. «La nostra cucina ha preparato una sorpresa per festeggiare tutte le ragazze ospiti della struttura», fa sapere Francesca Di Maolo, 45 anni, presidente del centro sanitario umbro specializzato nell’assistenza e riabilitazione di bambini e ragazzi con gravi disabilità. Prima donna al vertice dell’ente ecclesiale, tre anni fa ha messo da parte la professione di avvocato per dedicarsi – anima e corpo – alla ‘missione’ affidatale dal vescovo di Assisi: guidare il Serafico. Una realtà di eccellenza, dove ogni giorno si toccano le «piaghe di Gesù»: così aveva detto Papa Francesco durante la sua visita del 4 ottobre 2013.
Presidente Di Maolo, che ricordo ha di quella giornata?
«Emozionante. Ero all’inizio del mandato e il Santo Padre mi ha dato una grande spinta, ricordando l’importanza del servizio che svolgiamo per l’altro».
Cosa significa dirigere il Serafico?
«Intanto vuol dire amministrare un’azienda sanitaria da 150 dipendenti, oltre a volontari e collaboratori. Quando ho ricevuto l’incarico pensavo che avrei dovuto occuparmi solo di numeri e bilanci, invece quest’attività mi ha preso la mente e il cuore. Da noi vivono bambini e ragazzi con gravi disabilità. Alcuni sono lontani dalle loro famiglie, altri non ce l’hanno proprio. Bisogna pensare a tante cose, non solo alla loro terapia».
Ci fa qualche esempio?
«Dall’organizzazione del compleanno alla gara sportiva, fino alla vacanza al mare d’estate. Cerchiamo di garantire ai ragazzi una vita piena, normale. Domenica li ho accompagnati alla partita di volley, a Perugia».
Riesce a separare la vita privata da quella lavorativa?
«È difficile. Sono sposata e ho una figlia di 17 anni. Quest’esperienza ha assorbito tutta la famiglia. Le racconto un episodio. La vigilia di Natale ero a cena con i miei cari, a casa. Quando è squillato il telefono. Chiamavano dall’ospedale per comunicarmi che uno dei ‘miei’ ragazzi, gravemente malato, non ce l’aveva fatta. Sono corsa da lui e l’ho vegliato per tutta la notte, poi ho organizzato il funerale».
Quanto conta, nel suo lavoro, la sensibilità femminile?
«Tanto. Il nostro personale è composto in prevalenza da donne. Credo che sappiamo cogliere meglio i bisogni di vita e le esigenze concrete dei ragazzi».
A lei si deve l’opera di rinnovamento dell’Istituto, è così?
«La strada è ancora lunga ma ce la stiamo mettendo tutta. Oltre all’attività di riabilitazione, abbiamo introdotto laboratori creativi, corsi di equitazione e realizzato un orto interno che i ragazzi possono frequentare. Cerchiamo di coinvolgerli il più possibile, insomma. La nostra struttura, inoltre, è sempre visitabile. In una società che esclude a priori la fragilità, noi diciamo che la pienezza delle vita è sempre a portata di mano».