"Nei centri antiviolenza ci vadano gli uomini"

Massimo Pici, presidente di Margot, l’associazione di volontariato che si occupa di tutela dei diritti: "Il sistema di repressione va migliorato"

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di Silvia Angelici

Uccise, massacrate di botte, perseguitate anche psicologicamente: la cronaca continua a registrare ogni giorno episodi di violenza contro le donne. Segno che gli strumenti di cui disponiamo, da quelli legislativi al sistema penale e giudiziario, da soli non bastano a contenere una problematica così drammatica.

Come agire per bloccare questa scia di sangue? Massimo Pici, presidente di Margot, l’associazione di volontariato che si occupa di violenza di genere, di bullismo e di tutela dei diritti in generale, suggerisce di affrontare il fenomeno anche su piani diversi, investendo molto sulla prevenzione.

"Si potrebbe iniziare dal migliorare il sistema di repressione. Tanto per fare un esempio: non più le donne costrette a rifugiarsi nei Centri antiviolenza, visto che spesso rinunciano a denunciare perché la soluzione proposta è molto ’impegnativa’ emotivamente, ma piuttosto il contrario. Cioè inserire i maschi, presunti violenti, in un progetto di riabilitazione lontano dell’abitazione domestica. Il che non significa - precisa Pici, ex poliziotto e segretario del sindacato di Polizia Siulp - sconti o scorciatoie per il carcere, ma un ulteriore strumento che sicuramente potrebbe facilitare le donne nella denuncia".

Secondo lei, quali sono i limiti dell’attività di repressione?

"Si tratta di limiti oggettivi derivati dal fatto che per la Procura e per le Forze dell’ordine inserirsi in un rapporto sbilanciato, caratterizzato da anni di violenza è difficilissimo. Perché purtroppo alla violenza si abitua sia la vittima che il carnefice".

A Bassano del Grappa esiste il centro Ares per la riabilitazione degli uomini violenti, intende esportare questo modello anche a Perugia?

"Margot nel suo piccolo già partecipa al recupero dei soggetti violenti avendo istituito un apposito sportello per ’maltrattanti’".

Come funziona il servizio, chi si rivolge a voi e come venite contattati?

"Finora sono gli avvocati difensori che si rivolgono a noi per il loro cliente per dimostrare all’autorità giudiziaria la buona volontà ad interrompere questo suo comportamento: essere violenti, come già detto, è una scelta e non una malattia se non in pochissimi casi che non fanno statistica. Oppure sono sempre gli avvocati difensori ma su suggerimento del giudice, che attende alla fine del percorso la relazione finale dello specialista su cui poi fare una valutazione più obiettiva possibile".

Qual è l’esito di questi percorsi?

"Non è scontato che sia favorevole alla linea difensiva o alle aspettative del legale".

E se il passato riaffiorasse? "Non parliamo di una scienza esatta, ma di tentativi qualificati per arginare un fenomeno complesso come è la violenza di genere su più piani e su più fronti" L’obiettivo di questo percorso?

"I pazienti devono prendere coscienza del cambiamento, accettare la fine del rapporto o una sua diversa impostazione. In una parola, scegliere la strada del rispetto a quella scontata della violenza".