I nodi dello sviluppo "Un’occupazione stabile rafforza la convivenza civile"

Simone Cipriani, founder e direttore di Efi-Ethical Fashion Initiative delle Nazioni Unite: "Senza remunerazioni adeguate si erodono il contratto sociale di base e la democrazia".

di Linda Meoni

PISTOIA

Business senza sostenibilità né dignità uguale processo di distruzione. Non ci sono altre opzioni per Simone Cipriani, pistoiese da anni di stanza a Ginevra, founder e direttore dell’Efi, Ethical Fashion Initiative delle Nazioni Unite e chair della Un alliance for Sustainable fashion che, appunto, nella sostenibilità e dignità del lavoro ha il punto cardine del proprio quotidiano operare che dimostra quanto ‘fare bene’ sia possibile oltre che necessari: "La sostenibilità non è una ricetta, ma un continuo lavoro. Le difficoltà non mancano, alcuni trovano delle scuse, ma ognuno può intraprendere questo percorso. Specie in un Paese come l’Italia in cui l’unica cosa da fare è applicare la legge che c’è ed è seria. E poi raggiungere livelli di remunerazione coerenti con un obiettivo di salario minimo, il ‘living wage’, parametro calcolabile. Sindacati e associazioni di categoria devono favorire un dialogo, l’azienda non può essere lasciata sola".

Cos’è il lavoro dignitoso, perché da questo dipende il benessere globale?

"Il lavoro dignitoso è una politica dell’organizzazione mondiale del lavoro che già dal 1999 sostiene una cosa evidente: in troppi posti del mondo avere un lavoro non garantisce la possibilità di vivere decentemente. Questo sta causando un’erosione del contratto sociale di base, fondamento di ogni società. Che è poi anche erosione dei fondamenti della democrazia". La mancanza di lavoro dignitoso riguarda solo i cosiddetti Paesi in via di sviluppo?

"In certi Paesi del mondo la questione è più urgente, ma nessuno è salvo. Dal lavoro non sempre consegue una vita dignitosa. E lo si può attribuire al declino del welfare state, a come l’educazione è cambiata nel corso degli ultimi decenni. Negli Usa c’è un indicatore che misura la possibilità per un giovane di guadagnare più dei propri genitori attraverso il proprio lavoro. Ebbene, qui nel 1942 era al 90%, nel 1980 al 50% , oggi ancora in picchiata. Per la prima volta in decenni non è detto che chi si affaccia nel mondo del lavoro oggi si trovi meglio di come si trovarono i genitori. Crescita e ricchezza mal distribuite, diminuzione del welfare state e poi la sanità e la previdenza, l’istruzione fortemente rivoluzionata. Le rette universitarie sono elevatissime".

Venendo al suo programma, l’Ethical Fashion Initiative: cos’è e cosa dimostra?

"La nostra è un’area di lavoro permanente in tanti paesi africani difficili, eravamo in Afghanistan fino a quando la situazione lo ha consentito. Abbiamo nel mirino diversi obiettivi di sviluppo sostenibile, il numero 8 è certamente fondamentale, ma non solo. Gestiamo un acceleratore, produciamo per la moda internazionale ma gestiamo anche un sistema di sostenibilità condiviso con l’industria della moda europea e sviluppato con la Camera della moda italiana. Lavorando come fornitori dobbiamo essere tutti allineati sul tema della sostenibilità. Elemento fondamentale sono le condizioni di lavoro, il rispetto assoluto dei diritti e principi fondamentali. Poi serve verificare se la governance dell’impresa è strutturata in modo da proteggere questi diritti e se esiste la possibilità di mettere in moto dei meccanismi che consentano di occuparsi dei problemi quando e se questi si manifestano. Il controllo continuo dei rischi di sostenibilità è importantissimo e funziona per avere un ambiente di lavoro dignitoso. Lo dicono le valutazioni d’impatto sociale: dove c’è lavoro dignitoso la vita cambia".

Restando in tema moda sostenibile, il consumatore come può orientarsi?

"C’è molta molta cacofonia di messaggi. C’è di positivo che l’Ue sta lavorando a una normativa sui sustainable claims per far chiarezza almeno sulle parole. Ma in potere del consumatore c’è l’informazione. Niente di diverso in fondo dal concetto di ‘cittadinanza’. E poi c’è l’essere cittadini responsabili, lavare i capi in maniera responsabile, condividere un abito, affittare, riusare".

Quanto inquina l’industria della moda?

"Il rapporto McKinsey ci dice che il 4% delle emissioni serra su base globale viene dall’industria della moda, che ogni anno si producono 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili, che solo l’1% dell’abbigliamento viene riciclato. Spaventoso l’uso di acqua, fortissimo l’impatto sulla biodiversità".