
Il nostro collega Michele Manzotti con Enzo Jannacci nella foto di Augusto Mattioli
Due straordinarie persone che, in modi e tempi diversi, hanno segnato il mio cammino di giornalista e critico musicale. Michele Manzotti, collega e punto di riferimento sempre pronto a nuove avventure giornalistiche, ed Enzo Jannacci, quello che ascoltavo fin dai giorni di "Vengo anch’io", grandissima figura della musica italiana, geniale e irriverente, imprevedibile e con un cuore grande come una casa. Eccoli insieme, e può darsi che in altre dimensioni si incontrino ancora felici, ai giorni della Città Aromatica. Michele Manzotti giornalista de La Nazione, per un periodo è stato anche nella redazione senese. Conoscerlo e confrontarsi era un piacere infinito.
Sarei stato ore ad ascoltarlo. Partiva dal classico ed arrivava al punk senza nessuna fermata. Garbato e gentile, un pozzo di conoscenza e di amicizie di nomi illustri, almeno quelli per me. Forse il punto che meglio ci univa corrispondeva al nome di Piero Ciampi, tanto che al Premio livornese, di cui faceva parte, non mancò alla prima del mio spettacolo in teatro sulla vita dello straordinario artista. Proprio nell’anno della foto di Augusto Mattioli, lo invitai a presentare in Comune la ormai storica reunion della Premiata Forneria Marconi. Volle "omaggiare" i cinque magnifici con la pagina del Festival delle Nuove Tendenze del 1971. Altro momento storico. E poi Jannacci: quello che "canta dentro nei dischi perché c’ha il figlio da mantenere", tanto per parafrasare la sua celebre canzone. Jannacci stralunato e sempre pronto a mettersi in gioco. Qui fece uno strepitoso concerto alle fonti di Fontebranda con il figlio Paolo. Quel figlio già al tempo ottimo musicista e che ricordiamo piccolo nella copertina di "Foto ricordo" del 1979.
Diceva dietro le quinte: "Il comico è tragico, altrimenti non sarebbe comico". Ed aveva ragione da vendere. Mi ricordava la Milano in bianco e nero di Ivan Della Mea, Gaber, dei Gufi e Dario Fo. Delle case di ringhiera. Di personaggi come Vincenzina (e la fabbrica) che raccontavano il grigiore dell’era industriale. Mi mancano entrambi. Con Michele, ogni tanto ci sentivamo, con l’altro accendevo lo stereo con un suo disco: lo posso fare anche oggi, ma non è più la stessa cosa.
Massimo Biliorsi