Tessile, il lino invernale si coltiva a Prato La superfibra a km 0 è diventata un brand

I primi 5 ettari raddoppieranno entro il 2024. L’azienda Linificio e canapificio Nazionale (gruppo Marzotto) si assume per intero il rischio agricolo

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Il "Lino d’Italia" ora è coltivato anche a Prato in un terreno agricolo grande 5 ettari che entro il 2024, raddoppierà a 10. Il brand d’eccellenza che riunisce l’intera filiera produttiva – tracciabile dal seme al filato – del lino invernale, appartiene all’azienda Linificio e canapificio Nazionale Società Benefit del gruppo Marzotto. Ma cosa è il lino invernale? Si chiama così una varietà della pianta, da cui si ricava la nobile fibra che indossiamo d’estate, che però cresce, coriacea, durante l’inverno a basse temperature anche con vento forte, pioggia e sotto la neve fino a -20° gradi. Ne esiste anche una coltura estiva, ma quella invernale ha innumerevoli vantaggi: un’altissima resa – basti pensare che matura in poche settimane – e un impatto ambientale vicino allo zero. A parlarne è l’amministratore delegato dell’azienda, Pierluigi Fusco Girard: "Il lino è una delle migliori fibre al mondo per la sua sostenibilità e le performance. Per ’Lino d’Italia’ abbiamo realizzato diverse colture in Italia, tra cui una a Prato, che applicano l’agricoltura rigenerativa. La scelta di Prato è questione simbolica, così rendiamo omaggio e onore alle due aree dove viene maggiormente utilizzato e valorizzato il tessuto, il distretto di Bergamo con le coltivazioni e lo stabilimento a Villa d’Almè e quello pratese. Inoltre diversificare le colture significa ridurre i rischi meteorologici, ovvio che in Lombardia c’è un clima diverso che in Toscana, per questo abbiamo messo colture anche in Emilia e in Puglia, limitando i danni al raccolto. L’obiettivo è di raddoppiare gli ettari entro il 2024, abbiamo già accordi con le imprese agricole".

Il progetto prevede una collezione made in Italy di prodotti in lino a km 0 di alta gamma, proponendo sul mercato un’alternativa al lino francese. Il piano futuro dell’azienda mira ad ampliare ancora le colture italiane fino a 75 ettari per realizzare una filiera compiuta sufficiente a fornire una linea di tessuti. "La situazione odierna – aggiunge Girard – è molto diversa rispetto a quella del Secondo dopoguerra quando soprattutto nel Nord Italia c’erano grandi distese di lino e canapa, poi c’è stata la competizione di altre fibre, come quelle sintetiche e gli agricoltori hanno dovuto ripiegare su altre colture nei campi, più redditizie per l’epoca. Ma perdendo queste coltivazioni di lino, l’Italia ne ha perso anche il il know how, è venuta a mancare la filiera, mentre in Francia questa è stata mantenuta grazie a politiche governative di sostegno alle aziende agricole che durano tuttora. La Francia è attualmente produttore dell’80% del lino mondiale, soprattutto in Normandia; il restante viene da Belgio e Olanda. Ora noi vorremmo cambiare queste cifre e recuperare il primato, arrivando a produrre in Italia il 3536% del lino europeo. La fibra del lino è interessante oggi perché rispettosa di tutte le tematiche ambientali; il filato è interamente compostabile, ha proprietà uniche per abbigliamento e arredamento, può essere usata per materiali compositi nell’edilizia e nel packaging biodegradabile di alimenti. I residui diventano materia secondaria. E la pianta del lino invernale quando cresce assorbe C02 e rende ossigeno".

L’ad Girard pensa al domani e spiega: "Stiamo spingendo per fare una filiera totalmente integrata che si basa sul miglior lino puro (è stato preso il seme di 7080 anni fa, lo stesso del dopoguerra, ndr) che stiamo coltivando in campi biodinamici, condotti secondo un disciplinare scritto da noi, mettiamo a disposizione delle aziende i semi, il know how, i macchinari per la lavorazione; e per evitare il default di trovarsi senza raccolto, ci assumiamo noi il rischio agricolo. A prescindere da tutto ciò che verrà coltivato diamo un tot all’agricoltore, che non dovrà temere il maltempo. Poi la fibra raccolta è lavorata a Villa d’Almè con un processo per ottenere un filato che – conclude – in termini di sostenibilità ambientale e sociale, in termini qualitativi e di storia, è superiore ai filati tradizionali".

Elena Duranti