
Liliana Segre a otto anni è stata espulsa da scuola perché le leggi razziali fasciste dicevano qualcosa di terribile: i bambini ebrei non potevano mescolarsi con gli altri.
A tredici anni è stata rinchiusa ad Auschwitz, ha sperimentato la privazione del nome e l’attribuzione di un numero, la fame, la disperazione dell’odio intorno a sé.
Quando è diventata nonna ha sentito il dovere di raccontare: era troppo importante, sentiva di non poter più tacere, soprattutto se tanti negazionisti continuano ad aver voce.
Anche ora che è una dolce nonna ci sono "odiatori" che in rete le lanciano parole pesantissime, offensive, di odio, cattive. Facile nascondersi dietro uno schermo!
Liliana vede un antidoto contro l’odio nell’empatia, nel sapersi mettere nei panni degli altri e dire "Me ne importa! Mi interessa! non me ne frego!".
La nostra nonna senatrice sopravvissuta alle leggi razziali fasciste e al campo di sterminio usa il racconto autobiografico: racconta in prima persona tutti i dettagli, vuole che le persone sappiano attraverso le sue parole. Serve a lei, ma serve soprattutto a noi. La nostra domanda da bambini, vedendo quello che succede: ma allora, non abbiamo ancora capito niente?