CARLO BARONI
Cronaca

Da Ponsacco a Melfi per un omicidio di mafia

Dopo due processi d’appello i mandanti sono stati condannati a 30 anni. La Cassazione ha reso definitive le pene. Il delitto è del 14 luglio 2007

di Carlo Baroni

La chiave del copione accusatorio è stata nel collegamento sul piano logico dell’analisi delle celle agganciate dai cellulari. Così, dopo due processi d’appello, la Cassazione – ritenendo logica la motivazione dei giudici di secondo grado – ha passato definitiva la condanna a 30 anni di reclusione per Angelo di Muro, 59 anni e Nicola Lovisco, 53 anni per omicidio aggravato dalla premeditazione e dalla finalità di agevolazione mafiosa, di Marco Ugo Cassotta, commesso quali mandanti dell’incarico affidato ad Alessandro D’Amato (reo confesso), a cui consegnarono due pistole per l’esecuzione. D’Amato, dopo aver condotto la vittima ad un casolare in contrada Leonessa di Melfi, esplose almeno quattro colpi di arma da fuoco uccidendola nell’immediatezza. Era il 14 luglio 2007. I due sono stati condannati anche per i connessi delitti di illegale detenzione delle pistole consegnate a D’Amato e della distruzione di cadavere di Cassotta. D’Amato faceva inizialmente parte del gruppo Cassotta: sorto un dissidio col capo decise di transitare nelle fila del clan opposto, accettando la proposta del cugino, Nicola Lovisco, che già vi militava. Per suggellare quell’adesione, gli fu dato incarico di uccidere il suo ex capo.

Quella mattina di luglio, rientrato a Melfi da Ponsacco, dove risiedeva al pari del cugino Lovisco che si spostò per Melfi la stessa notte – si legge – "incontrò Lovisco e Di Muro in località Leonessa per eseguire un sopralluogo in un casolare abbandonato, e poi in località Serre dove i due, secondo la ricostruzione della corte, gli consegnarono le armi da utilizzare nell’agguato e un cellulare con il quale avrebbe dovuto avvertire dell’avvenuta esecuzione del delitto con due squilli". Quindi, incontrò Cassotta e, "col pretesto di mostrargli delle armi, lo condusse al casolare e lo uccise". Fece gli squilli e ripartì per Ponsacco dove "si disfece delle armi, in Arno". La corte d’appello – si legge – ha sottolineato che "è ben plausibile quanto riferito da D’Amato, la cui attendibilità intrinseca, come evidenziato dalla sentenza di annullamento con rinvio, è stata già definitivamente accertata". Quando a Lovisco la corte ha rilevato che, nello spazio temporale messo sotto la lente. si tenne in contatto esclusivamente con Di Muro e D’Amato, "il che attesta che la trasferta in Melfi fu dovuta a ragioni comuni ai due correi". E’ il capolinea giudiziario dell’operazione "Gattopardo". L’omicidio fu il biglietto d’ingresso di D’Amato nel clan rivale. Il gattopardo era lui.